Minacce da guerra fredda, neppure troppo sottili anche se “addolcite” da un «non dovrebbe essere necessario». Il presidente Putin varca a parole la linea rossa disegnata nel post-Unione Sovietica: testate nucleari sui missili diretti contro l’Isis. Ovvero nucleare a poca distanza dalla Turchia, membro della Nato, chiara sfida ad Ankara e al Patto Atlantico.

«I missili Kalibrs e i Kh-101 hanno dimostrato di essere moderni e altamente efficaci – ha detto Putin a Russia Today – Ora lo sappiamo con certezza: armi di precisione che potrebbero essere equipaggiate con testate sia convenzionali che speciali, ovvero nucleari».

«Naturalmente non è necessario quando si combattono terroristi e, spero, non ce ne sarà mai bisogno», ha aggiunto. Parole pesantissime che non aiutano a sgonfiare le tensioni con la Nato: prima l’abbattimento del jet russo per mano di Ankara, poi le sanzioni di Mosca contro la Turchia, infine la provocazione di una nave militare russa che attraversa il Bosforo con lanciamissili in bella mostra.

La Russia gioca tutte le carte che ha in un Medio Oriente che il nucleare lo conosce bene e di cui non ne è privo. La minaccia di “testate speciali” non è diretta allo Stato Islamico, ma agli avversari occidentali. Non si arriverà a tanto, ma simili scambi di battute danno la misura delle distanze tra Russia e Stati uniti. Le super potenze discutono di negoziati a partire dal primo gennaio, il segretario di Stato Usa Kerry annuncia una visita a Mosca, la prossima settimana, per affrontare la questione siriana, ma sul campo gli screzi servono a definire le rispettive posizioni in vista del dialogo futuro.

Mosca mette in campo ogni possibile strumento militare. Martedì il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha fatto sapere che per la prima volta lo Stato Islamico è stato colpito da missili lanciati da un sottomarino lungo le coste siriane, nei pressi di Cipro: «I target erano due grandi postazioni terroristiche nel territorio di Raqqa, causando seri danni a magazzini di armi e una fabbrica di mine». Dell’attacco dal mare, ha aggiunto il ministro, sono stati avvertiti sia Stati uniti che Israele, paese che testate nucleari ne possiede da tempo seppure le occulti da anni.

Washington da parte sua tenta di serrare le fila, consapevole che la strategia finora messa in campo non è efficace. Ieri lo ha ammesso il segretario alla Difesa Carter: di fronte al Congresso ha detto che l’Isis non è stato contenuto, per poi annunciare l’invio di Apache e consiglieri militari nella città irachena di Ramadi (dove a bombardare sono anche i russi). E pone la questione come uno scontro diretto, con il “califfato” minaccia all’Occidente prima che al Medio Oriente: «La realtà è che siamo in guerra. Questo è quello che sentono le nostre truppe perché combattono l’Isis ogni giorno». Sulla Russia Carter smorza le tensioni limitandosi ad uno scarno commento: «La Russia deve concentrarsi sul lato giusto di questa guerra».

Per ora si concentra sulla distruzione della Turchia: ieri lo scambio di accuse tra Ankara e Mosca è proseguito. Il premier turco Davutoglu ha tacciato la Russia di una «pulizia etnica» a Latakia (roccaforte del presidente siriano Assad), mentre l’ambasciatore russo all’Onu sfruttava Baghdad: Vitaly Churkin ha accusato la Turchia di aver agito «incautamente e inspiegabilmente» mandando truppe in territorio iracheno. Il governo di Baghdad cerca sostegno nella Russia, che da qualche mese gestisce le operazioni con iraniani e siriani dal centro di coordinamento della capitale irachena: il premier al-Abadi ha chiesto alla Nato di intervenire per costringere l’alleato turco a ritirarsi, dopo la scadenza delle 48 ore di ultimatum date da Baghdad ad Ankara, mentre le milizie sciite legate all’Iran prospettano un intervento armato contro i turchi nel caso di permanenza alle porte di Mosul. L’Iraq, come la Siria, è ormai solo una pedina di un gioco giocato ad altri livelli.

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