«Il reddito di cittadinanza? È la cosa meno di sinistra che esista», «significa negare il principio che l’Italia non è paese dei furbi ma chi lavora duro ce la può fare». Addirittura: «È incostituzionale». Renzi boccia il sostegno al reddito, nonostante qualcosa del genere esista in 24 paesi europei e anzi l’europarlamento da anni inviti i paesi a trovare forme di reddito «in grado di sottrarre ogni bambino, adulto e anziano alla povertà e garantire loro il diritto a una vita dignitosa» (risoluzione del 20 ottobre 2010). Renzi, che parla da Genova dov’è ospite del palco della festa di Repubblica intervistato dal direttore Ezio Mauro, forse ce l’ha con il Movimento 5 stelle, fan della proposta. Ma con tiro fa strike: proprio ieri in 200 città – Genova compresa – l’associazione Libera di don Luigi Ciotti raccoglieva le firme per l’istituzione di «un reddito minimo o di cittadinanza» nell’ambito della (fortunata) campagna «Miseria Ladra». Cui ha aderito, oltre a tutti i parlamentari del M5S e di Sel, anche la sinistra del suo partito, almeno quella parte di Area Riformista rappresentata da Roberto Speranza che il 22 maggio ha firmato la petizione di Libera e auspicato «un progetto di legge condiviso da tutti». In parlamento una maggioranza ci sarebbe. Ma da ieri sappiamo che il parere del governo, fin qui sfumato e possibilista, è contrario. E per questioni alla sua maniera ideologiche («non è di sinistra»), neanche per più digeribili obiezioni di cassa.

Messo a posto il Movimento 5 stelle, con il quale in questi giorni il Pd incrocia i ferri (sulle liste degli «impresentabili» e sul caso Bindi, sulla giunta Marino e sull’inchiesta Mafia Capitale e infine sul ’caso Orfini’, attaccato a testa bassa dallo stesso Grillo), Renzi si applica alla sua minoranza interna. Anche qui con parole ruvide. Siamo nel capoluogo della regione che il Pd ha perso rovinosamente. Settantatremila voti in meno rispetto alle regionali del 2010, 140mila in meno rispetto alle europee dell’anno scorso e del 41,7 per cento (ora crollato al 27,8). Renzi ammette che si tratta di «un campanello d’allarme», poi recita la consumata storia di quelli che se perdono non hanno «diritto di spaccare tutto». Ma archiviata la polemica con Pastorino&Cofferati è alla minoranza ancora nel Pd che invia un avviso di garanzia: «Basta spaccature tutto. Se fai così, è finita la storia del Pd». Domani sera alla direzione del partito ci sarà la resa dei conti: «Le molte mail che ricevo dicono ’vai alla direzione non solo con la mimetica ma con i reparti speciali’», assicura. Lui promette «un dibattito vero» ma chiederà «lealtà nei comportamenti perché servono delle regole di condotta», «altrimenti stai in un partito anarchico» (copyright Matteo Orfini).

Dal Pd renziano da giorni si moltiplicano i boatos di «nuove regole». Ma è difficile che la discussione interna prenda la curva disciplinare, quella imboccata senza complessi dai 5 stelle. Non ora che al senato i numeri della maggioranza sono incerti e che una ventina di democratici sono pronti a dare battaglia sul ddl scuola. Al loro indirizzo infatti Renzi saggiamente invia un messaggio di pace: «Siamo pronti a ragionare e cercheremo di coinvolgere più persone».

Il fronte sinistro del Pd si prepara al confronto in ordine rigorosamente sparso. Un presepe di posizioni diverse, da quelle in uscita dal Pd a quelle in entrata nella maggioranza renziana. Dall’account ufficiale di Area riformista su twitter parte un «#Scuola #Senato #Partito facciamo fatica ad andare avanti così. Ci stiamo preparando alla sfida congressuale». Replica Matteo Mauri, area ’dialogante’: «Chi continua a concentrarsi su una battaglia tutta interna al Pd, pensando ora al congresso del 2017 fa un danno al Pd, al paese e anche alla sinistra del Pd». E Davide Zoggia, altro bersaniano: «Proporremo un patto sul merito dei provvedimenti, così da arrivare al 2018, dando all’Italia le risposte di cui ha bisogno». Per Gianni Cuperlo le minoranze non vogliono «una resa dei conti», ma «è bene discutere di cosa intendiamo per partito della nazione», visto che le urne non hanno premiato il partito che si allontana dalla sinistra «per sfondare nell’altro campo».

E qui il discorso di fa interessante perché si tratta della stessa argomentazione svolta, all’indomani del voto, dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Che è nella maggioranza renziana, ma su posizioni ’turche’. E che ha dichiarato «il partito della nazione» un’idea superata, anzi «ambigua, a pericolosa». E che sulla sconfitta ligure si è cavato un sasso dalla scarpa rivelando di aver cercato «di dare qualche indicazione, molto felpata», ma di essersi sentito rispondere «fatti i fatti tuoi».