Non è retorico dire che la scomparsa di Riccardo Terzi (per quanto amici ci si sentisse nel vecchio Pci ci si chiamava per cognome) è una perdita assai grave per coloro che ancora pensano a un rifacimento della sinistra. Quando si dice di qualcuno ch’egli è un’intelligenza critica si pensa normalmente a una persona inquieta, forse piena di ansie e di tormenti. Riccardo Terzi era il contrario: una rara intelligenza critica che appariva intrisa di serena coscienza e di pacata fermezza.

La sua era una forma di realismo – cioè di riconoscimento dello stato delle cose – senza smarrimento delle motivazioni che lo avevano spinto a schierarsi. Con un tale bagaglio di limpida criticità del pensiero e dunque di piena autonomia intellettuale e morale ha attraversato prima la storia del Partito cui aveva aderito da giovanissimo – giungendo ad essere il massimo dirigente di una delle sue più grandi e difficili organizzazioni, quella di Milano – e poi, dall’inizio degli anni 80, del sindacato. Nella Cgil ha avuto incarichi di direzione e di studio tra i più delicati: Lama gli affidò il settore dei tecnici e dei quadri dopo la sconfitta alla Fiat segnata dalla rottura tra operai e impiegati, Trentin lo volle a capo del dipartimento per le riforme istituzionali quando iniziava la crisi del sistema politico italiano. E fu dirigente esperto di grandi organizzazioni – la Cgil lombarda, il sindacato pensionati, il più grande di tutti – sempre mantenendo il proprio profilo di ricercatore, come provano gli scritti sulle materie affrontate nei suoi vari incarichi.

Credo di essere uno dei più compiuti testimoni del suo percorso intellettuale e politico: era un ragazzo della Fgci nel tempo in cui fui segretario della Federazione milanese del Pci. E spesso ci trovammo su posizioni diverse, pur con sentimenti, se non vedevo male, comuni. Fu coraggioso critico di Berlinguer in nome dell’intesa a sinistra. Ma chi pensava di poterlo annoverare tra i partecipi di una tendenza che si veniva organizzando – quella che fu chiamata la destra comunista – sbagliava radicalmente, non meno di chi avesse pensato di classificarlo nel gruppo opposto. Seguiva, a me pare, una propria traccia: quella del radicamento di ogni possibile sinistra nel sociale. Perciò quando gli parve – giusto o sbagliato che fosse – che il suo partito scivolasse in astrazioni lontane dalla realtà scelse il sindacato. Avvertiva l’avanzare di tempi nuovi e lo sfinimento di categorie di pensiero obsolete. Era tra i pochi che avevano inteso il senso di movimenti nuovi come quello del femminismo della differenza.

Fu innanzitutto per il bisogno di rinnovamento nel pensiero e nelle pratiche politiche – quale ne potesse essere la fondatezza – che, credo, seguì, come altri della sua generazione, tutte le trasformazioni del suo Partito, compresa la metamorfosi nel partito democratico, pur criticandone le involuzioni. Ma per non minore esigenza di rinnovamento se ne distaccò quando, dopo le ultime elezioni politiche, vide il rinnovarsi del patto con la destra, anziché un cammino verso quella parte dell’elettorato che aveva manifestato la sua protesta sociale in modo ch’egli non condivideva (i cinque stelle) ma di cui misurava la profondità. La lettera di dimissioni conferma il suo convincimento che solo un’autentica comprensione della vita sociale alla sua base, può essere il metro con cui si misura una qualsiasi sinistra. «Il resto è chiacchiera», concludeva.

Un uomo libero, pur nelle costrizioni tipiche delle grandi organizzazioni. Un dirigente non sempre inteso in tutto il suo valore. Un intellettuale di vaglia. Recentemente sono stati pubblicati alcuni suoi scritti acuti e lungimiranti, ancora attuali. Ma il mio dolore privato è per la perdita di quello che è sempre stato per me, quel ragazzo dallo sguardo pensoso e dal sorriso gentile, avaro di parole. Ma quando le parole uscivano erano necessarie e sagge. Il contrario della chiacchiera, oggi al potere.