Con l’arrivo del freddo sono morte già nove persone nelle strade della capitale, persone che non avevano una casa in cui scaldarsi. Da novembre a oggi sono quasi una a settimana. Tre soltanto negli ultimi cinque giorni: sabato a Ostia, davanti alla sede del X municipio; domenica alla stazione Termini, di fronte a un albergo chiuso a causa della pandemia; martedì all’ospedale Sant’Eugenio. Lì era ricoverato da una settimana Marian, un uomo polacco di circa 60 anni che si è ustionato nel tentativo di riscaldare il suo alloggio di fortuna vicino al cimitero Verano. «Aveva lavorato come autotrasportatore, poi anni fa è rimasto senza impiego ed è finito per strada. Viveva con la compagna. Amavano molto leggere e oltre al cibo gli portavamo spesso dei libri», racconta Massimiliano Signifredi, volontario della comunità di Sant’Egidio.

I numeri forniti dall’organizzazione fotografano la drammatica realtà della capitale. I senza fissa dimora sono circa 8mila. Di questi: 2.500 vivono in ripari di fortuna e altrettanti sono accolti da associazioni del terzo settore o dal Comune di Roma. Le strutture pubbliche hanno un migliaio di posti tra accoglienza ordinaria e circuito migranti e altri 300 per il riparto notturno nell’emergenza freddo.

Troppo pochi per le circa 3mila persone che, sempre secondo Sant’Egidio, non hanno nulla e dormono in strada. Per offrirgli una rapida soluzione mentre le temperature continuano a scendere, l’organizzazione ha chiesto di utilizzare gli hotel rimasti vuoti causa Covid-19. «Qualche albergatore ha già risposto in maniera generosa, dicendosi disponibile in ogni caso. Qualcun altro chiede che le istituzioni garantiscano dei sussidi per venire incontro a una categoria in crisi», dice Roberto Zuccolini, portavoce di Sant’Egidio.

Le persone che vivono per strada sono l’aspetto più drammatico e più visibile di una questione sociale sul punto di esplodere, momentaneamente tamponata dal blocco degli sfratti e da quello dei licenziamenti. Basta guardare ai centri di distribuzione alimentare: quelli dell’organizzazione cristiana sono passati da 3 a 28 in meno di un anno, cioè dall’inizio della pandemia.

Parallelamente ai fenomeni di povertà, però, è aumentato anche l’impegno delle realtà sociali e del mondo del volontariato laico e religioso. Già dal primo lockdown si sono moltiplicate nella maggior parte dei quartieri della capitale le reti solidali e di mutuo aiuto: da San Lorenzo al Tufello, dal Quarticciolo a Ostia, da Tor Bella Monaca al Trullo. Nel I municipio, quello del centro città, e nell’VIII, di San Paolo e Garbatella, sono nati i «patti di comunità» con cui le due minigiunte di centro-sinistra propongono ai diversi soggetti impegnati nel contrasto della crisi sociale di integrare informazioni e servizi all’interno di reti territoriali.

A supporto di queste progettualità è intervenuta ieri anche la Regione Lazio, votando all’unanimità un ordine del giorno promosso dalla consigliera Marta Leonori (Pd) che dà indirizzo alla giunta per: potenziare i patti di comunità; destinare parte degli immobili della regione ad associazioni e realtà senza fini di lucro mettendo al centro «l’uso e il valore sociale del patrimonio»; assegnare a titolo gratuito locali non residenziali nei quartieri che vivono maggiori difficoltà. In quest’ultimo punto rientrano le aree in cui l’indice del disagio sociale è peggiore rispetto alla media locale: qui dovrebbe diventare più semplice e rapido rispondere ai bisogni degli abitanti e alle spinte alla partecipazione. La decisione serve anche a dare attuazione alla legge regionale sui beni comuni approvata a luglio 2019, che ha il merito di inserire in questa categoria anche il patrimonio immobiliare pubblico.