Avrebbe dovuto dirigerlo Steven Spielberg, American Sniper. E chissà come sarebbe stato. Passato a Clint Eastwood quasi come un lavoro su commissione, con in dote tanto di Bradley Cooper in veste di protagonista e produttore, il film segue l’eccellente Jersey Boys a pochi mesi di distanza. Una doppietta, come nel 1997 con Potere assoluto e Mezzanotte nel giardino del bene e del male o nel 2003 con Mystic River e Piano Blues. O ancora nel 1990 con La recluta a seguire Cacciatore bianco, cuore nero. Che Clint Eastwood abbia in sé l’essenzialità di un Don Siegel e la razionalità di un Howard Hawks non è una novità. La precisione del suo gesto filmico si estende naturalmente all’approccio produttivo e all’etica di un pensiero cinematografico.

Per parafrasare Cesare Pavese, Eastwood è «tutto nel gesto che fa». Il gesto come misura e segno di una posizione morale nei confronti del mondo. Ed è esattamente questa posizione morale che informa un lavoro complesso e rigoroso come American Sniper e che resta indigesta a una parte della critica. Tutto quanto c’è da sapere su American Sniper, infatti, sta nella precisione delle inquadrature e della messa in scena. Eastwood, in questo senso, è paradossalmente godardiano: la guerra è mettere un pezzo di piombo nel corpo di un altro. Ed è esattamente quest’atto, l’uccidere, sovrapposto al vedere, sovente attraverso un mirino, che pone in prospettiva il discorso sull’identità di corpo e nazionale.

Uccidere è una (non)relazione. Ma per farlo bisogna comunque essere in due. Per smettere, però, basta anche essere da soli. Lo «scandalo»del film, così indigesto agli alfieri del contenutismo di ritorno, maldestramente coperto da parole d’ordine abusate (come direbbe Olivier Assayas, «l’estremismo di sinistra si è rifugiato nella critica cinematografica»), è di calare il proprio gesto cinematografico dentro un mondo e lasciarlo sedimentare, come differenza, come possibilità (di uno sguardo). In American Sniper non ci sono gli appigli ideologici presenti persino in film molto più problematici come La croce di ferro di Sam Peckinpah. American Sniper, come sguardo, è in realtà vicinissimo a un film come La fiamma che non si spegne di Vittorio Cottafavi, anche se è decisamente improbabile che Eastwood l’abbia visto. Entrambi i film, infatti, sono tratti da libri fondanti l’identità nazionale in guerra attraverso il sacrificio militare (nel caso di Cottafavi, Itala gens del generale Franco Navarra Viggiani). E in entrambi i casi, i registi si smarcano per la precisione dello sguardo pur non rifiutando l’impianto valoriale di fondo.

Scandalo nel caso di Cottafavi, scandalo nel caso di Eastwood. American Sniper sta al cuore del cinema eastwoodiano. Siamo in pieno territorio Dirty Harry. La contraddizione del «No!». E non caso una certa critica fatica – ancora – a ragionare sulla complessità di uno sguardo che si dichiara patriottico e conservatore ma assume lo sguardo sull’altro del proprio protagonista come se non lo mettesse in discussione. Dove il «come se» fa tutta la differenza del mondo. Ed è proprio questo aderire (come delle regole di ingaggio filmiche) l’unica forma di dissenso eticamente praticabile nei confronti della vita che si vuole narrare (o bisogna ricordarsi degli scavalcamenti di campo di Flags e Iwo Jima?). Per vedere, e senza ricorrere necessariamente a Sam Fuller, si vede con tutto il corpo. Incapace di pensare la complessità eastwoodiana, si tenta di sbarazzarsi del problema ricorrendo alle solite accuse: «guerrafondaio», «fascista», «repubblicano». Ignorando, sempre con Pavese, che per Clint «non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte». E Clint Eastwood, come Pavese, sa bene che «la morte, ch’era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene».