Prima il caso del libro di Valentina Mira, accusato di aver dissacrato l’immaginario di destra delle vittime del “terrore rosso”; poi la censura al monologo di Scurati che, semplicemente, ripete quello che è scritto nei libri di storia e chiede di conseguenza alla premier di identificarsi con la Costituzione antifascista; prima ancora la censura alla scrittrice Nadia Terranova, per il suo monologo sulle cariche della polizia contro gli studenti di Pisa. Piccole e grandi censure, revisionismi, storture e meschinità che parlano di un tratto cruciale della destra italiana e del suo intreccio con la memoria storica.
Non si capisce ciò che sta accadendo se non lo si riconduce alla costruzione politico-mediatica della memoria storica dell’esperienza del fascismo e, successivamente, alla rappresentazione pubblica del terrorismo di matrice neo-fascista degli anni ‘70. Fenomeni in continuità, tra loro e con la destra italiana (ne scrive Sergio Bologna in Alcune note sulla questione dei ceti medi e dell’estremismo di destra in Italia dal dopoguerra a oggi, Edizione acro-pólis, Trieste, 2023).
La tesi di Bologna è che la memoria della Resistenza sia strabica: mitizzando la Resistenza, l’Italia si è auto-assolta dei crimini che le sue truppe hanno commesso accanto alla Wehrmacht e alle SS. Così si sono anche dimenticati i misfatti commessi nei Balcani, in Africa nelle ex colonie, dalla Libia all’Etiopia. È così che avviene la rimozione dell’esperienza fascista dalla memoria storica del Paese e, appunto, la mitizzazione della Resistenza e degli “italiani brava gente”.
Ben diversa, sostiene Bologna, è la memoria degli anni ’70 che, anche grazie al modo in cui il lavoro degli storici viene portato dai media nello spazio pubblico, sembra prolungare all’infinito uno “stato d’emergenza” nei confronti di un fenomeno, il terrorismo “rosso”, che da decenni non esiste più.
È quindi accaduto il contrario di quello che è capitato con la memoria del fascismo: quanto si è alimentata la rimozione del passato fascista nel dopoguerra, tanto il ricordo delle degli anni ‘70 viene continuamente riproposto in chiave unilaterale.
È questa la vera posta in gioco delle piccole e grandi censure: proteggere il mito degli “italiani brava gente” (pagando il politicamente poco impegnativo e, anzi, in molti modi funzionale, pegno della mitizzazione della Resistenza), continuando a perpetuare la rimozione della memoria del fascismo, la cancellazione del terrorismo nero e la memoria degli anni ’70 come anni del “terrore rosso”. La cosmogonia della destra, la galleria delle intoccabili divinità la cui violazione comporta la censura o peggio.
Il progetto politico della destra di governo è in continuità con lo strabismo di questa memoria storica e, semplicemente, non tollera nulla e nessuno che lo metta in discussione. Non stupisce quindi l’impegno per il controllo politico degli immaginari, per l’occupazione dei ruoli che manovrano il capitale simbolico e per la promozione di una iconografia della classe dirigente in diretta connessione con i modelli identitari semanticamente affini a questa memoria storica: dal gastronazionalismo, all’Italia delle eccellenze rurali, alla maternità come dovere delle donne, alla disciplina come fondamento della scuola pubblica, alla difesa dei confini contro l’invasore straniero.
La sinistra ha pensato di saper fare la televisione perché sapeva fare “Blob”, lasciando alla destra la tv di massa. Un gravissimo errore. Il controllo degli immaginari, Berlusconi docet, è co-essenziale alla costruzione del consenso. Ce lo spiega bene il caso di “Semplicemente Maria”, la telenovela che per oltre dieci mesi, tra il 1969 e il 1970, ha catalizzato l’attenzione di milioni di peruviani e, soprattutto, peruviane.
La telenovela racconta la storia di Maria Ramos, una immigrata dalle aree rurali andine che arriva in città in cerca di una vita migliore. Maria trova lavoro come domestica presso una famiglia benestante e si iscrive a corsi di alfabetizzazione per adulti, tenuti dal “Maestro” Esteban. Ha una storia estemporanea e rimane incinta, per venire successivamente licenziata dai suoi ricchi datori di lavoro. La madre di Esteban, Dona Pierina, le insegna come cucire e Maria inizia a lavorare come sarta, per poi avviare la propria attività di modista. Ben presto la fama di Maria si diffonde e diventa una stilista di grande successo; si trasferisce a Parigi per dirigere la sua nuova impresa e alla fine sposa il Maestro Esteban.
La telenovela ha ispirato le spettatrici, prevalentemente giovani donne di basso status sociale, ad aumentare il loro impegno e stimolandone l’autostima. In seguito a “Semplicemente Maria” le sarte sono aumentate in tutto il Perù e le iscrizioni ai corsi di cucito sulle macchine da cucire “Singer”, quelle utilizzate da Maria, sono cresciute in modo visibile. Il confine tra reale e virtuale si era già incrinato prima dei social media. La destra lo ha capito da tempo e la sinistra dovrebbe affrettarsi per recuperare il terreno perduto.
@FilBarbera