Prima Corea, poi Evo Morales, e in entrambe le occasioni la riaffermazione senza tentennamenti di fronte ai due leaders del «nuovo socialismo» dell’America Latina, dei contenuti fondamentali dell’Enciclica, contro la logica perversa del dominio della finanza e della tecnocrazia, che distrugge la natura e rende i poveri più poveri. Per i movimenti dei poveri del mondo l’Enciclica è un formidabile messaggio di indignazione e di speranza.
Ma l’Enciclica dice cose importanti anche per noi. E il silenzio dei potenti dell’Europa segna la distanza fra ciò che l’enciclica afferma e il modo i cui l’Europa – più o meno tutta – sta provando a uscire dalla crisi, a partire dal modo con cui si è confrontata e si confronta con la Grecia di Tsipras .
Il primo dei luoghi comuni che Francesco mette i discussione è quello della crescita. È la crescita guidata dalla tecnocrazia e dalla finanza che ha provocato insieme la crisi ecologica e sociale. Vano sarebbe pensare di uscirne se le due crisi non si affrontano insieme. E se non si esce dal paradigma che le ha provocate entrambi.
«Si sono salvate le banche senza rimettere i discussione lo strapotere finanziario». Ma «la bolla finanziaria di solito è anche una bolla produttiva». La sovraproduzione di cose spesso inutili e dannose mentre c’è, in tanta parte del mondo, penuria di cibo, di acqua, di suolo. E da qui ha origine anche il debito.
Produrre più cose con sempre meno lavoratori (e pagati anche male) rende strutturale l’indebitamento per sostenere i consumi. E allora, se questa è stata la crescita prima della crisi, occorre metterne al bando l’idea e la parola, persino quando è pudicamente corretta dall’aggettivo sostenibile, e distinguere, dovremmo finalmente impararlo anche noi, la crescita dallo sviluppo, per poter parlare del quale «occorrerà verificare che si produca un miglioramento integrale nella qualità della vita umana, e questo implica analizzare lo spazio in cui si svolge l’esistenza delle persone».
Lo spazio fisico, la natura e la cultura, e lo spazio del lavoro, e la qualità delle relazioni sociali. È a partire da questa idea di sviluppo che l’Enciclica ci dà qualche indicazione sulla politica industriale e sulle politiche del lavoro.
Una politica industriale trainata semplicemente dalla ripresa dei consumi e dal costruire le condizioni più favorevoli per gli investimenti esteri sembra a Francesco riprodurre tutte le distorsioni della crescita che abbiamo alle spalle.
Assumere la competitività e il massimo profitto come parametro pressoché esclusivo per gli investimenti è all’origine di costi ambientali e sociali che le imprese scaricano sulla società. Così come gli incrementi di produttività ottenuti semplicemente diminuendo l’occupazione.
«Non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe se stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale». Così come cercare di ottenere flessibilità con la precarizzazione del lavoro e non investendo sulla formazione e sulla crescita professionale dei lavoratori.
«Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società». Perché fare bene un lavoro che ti piace è un pre-requisito fondamentale per essere un cittadino attivo e consapevole dei propri diritti e delle proprie responsabilità.
Per creare occupazione, ci dice l’enciclica , «è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale». La diversificazione e la creatività vanno orientate sui bisogni sociali reali e sulla salvaguardia dell’ambiente. Per un’industria che non produca «scarti» né fisici né soprattutto umani. Che sappia assumere la cultura del riutilizzo come proprio parametro fondamentale.
Per questo ci sarà bisogno di ricerca. Di una ricerca non più trainata dal profitto e dal consumismo – l’innovazione che fa crescere consumi artificiali e accorcia il ciclo di vita dei prodotti – ma quella necessaria a «risolvere i problemi urgenti dell’umanità». La sfida che l’Enciclica ritiene decisiva passa dalla capacità di spostare alla ricerca trainata dai bisogni e dai desideri di salute, di istruzione, di cultura e di bellezza, le risorse che gli Stati hanno investito sulla ricerca orientata al profitto o trainata dal militare.
Ma per innestare questa nuova politica economica e industriale c’è bisogno di legalità – «un fattore che agisce come moderatore effettivo (della logica del massimo profitto) è il diritto» – e di democrazia.
«In ogni discussione riguardante un’iniziativa imprenditoriale si dovrebbe porre una serie di domande, per poter discernere se porterà ad un vero sviluppo integrale: Per quale scopo? Per quale motivo? Dove? Quando? In che modo? A chi è diretto? Quali sono i rischi? A quale costo? Chi paga le spese e come lo farà?».
Coi tempi necessari ad un dibattito coinvolgente e informato. Su questo punto, l’Enciclica segna una distanza enorme dal decisionismo velocizzante degli imprenditori sulla cresta dell’onda e dei politici governanti, quelli che semplificano e riducono i tempi della democrazia «perché i mercati non aspettano». Sembra sentire risuonare, nelle parole dell’Enciclica quel «diritto allo sguardo», di cui parlava Bruno Trentin, come base di una politica industriale e del lavoro, che si proponesse di tenere insieme sostenibilità ambientale e crescita professionale e culturale dei lavoratori. Del resto, è a questo sguardo dal basso che Francesco affida le sue speranze.
Perché della politica, che ha scelto la strada del consenso a breve, e ha tarato i suo tempi su quelli della tecnocrazia e della finanza, il Papa non si aspetta molto. «Se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali».
I tempi lunghi a cui ci invita l’Enciclica camminano sulle gambe delle persone e sulla loro capacità di organizzarsi.