La Alan Kurdi è libera, ma solo a metà. Il Tar sardo ha sospeso il fermo amministrativo a cui la nave umanitaria era sottoposta nel porto di Olbia dal 9 ottobre scorso. Potrà «lasciare le acque territoriali italiane all’unico fine di recarsi presso il porto spagnolo [di Burriana, ndr] per gli adeguamenti necessari al ripristino in condizioni di sicurezza della sua attività di navigazione», si legge nell’ordinanza emessa venerdì 9 aprile a seguito del ricorso presentato dalla Ong Sea-Eye contro il ministero di Infrastrutture e trasporti, Capitaneria di porto di Olbia. All’orizzonte, dunque, non c’è alcuna missione in zona Sar.

IL TRIBUNALE amministrativo si è espresso sulla misura cautelare, ma ha aggiornato la questione di merito al prossimo 3 novembre. Nel frattempo la Corte di giustizia Ue dovrebbe aver preso una decisione sul procedimento analogo che riguarda le Sea-Watch 3 e 4 e di cui il Tar siciliano ha mandato gli atti in Lussemburgo. Alla base delle diverse vicende c’è una domanda comune: chi ha il potere di stabilire i requisiti di sicurezza di un’imbarcazione? In genere si tratta dello Stato di bandiera, che per le tre navi è la Germania (considerata tra i paesi più affidabili in questo campo).

ALLE ONG del Mediterraneo, però, l’Italia contesta attraverso i «controlli dello Stato di approdo» che il certificato di classe «cargo» non corrisponda alle «sistematiche» attività di ricerca e soccorso. E con questo argomento le blocca dopo ogni missione umanitaria. La prassi è stata affermata dal secondo governo Conte, con Luciana Lamorgese al Viminale e Paola De Micheli (Pd) alle Infrastrutture, ministero da cui dipende la Guardia costiera. Attraverso i Port state control sono state fermate più navi che durante l’esecutivo precedente, quello dei «porti chiusi» del ministro Matteo Salvini.

LA SITUAZIONE sembra essersi risolta con la spagnola Open Arms, che ha ottenuto una certificazione di classe Sar dal suo stato di bandiera, e la norvegese Ocean Viking, che ha effettuato dei lavori a bordo per dare seguito alle richieste della Guardia costiera. Nessuna delle due imbarcazioni è stata recentemente sottoposta a ispezioni. Diverso il destino delle navi tedesche, in cui è esemplare il caso della Sea-Watch 3: nonostante il Tar siciliano avesse sospeso il precedente blocco il 2 marzo scorso, 19 giorni più tardi ha ricevuto un nuovo fermo amministrativo nel porto di Augusta al termine della sua ultima missione.

IL PROBLEMA di fondo è che la certificazione Sar richiesta dalla Guardia costiera non esiste né nell’ordinamento italiano, né in quello tedesco. Anche sulla base di questa lacuna oggettiva, oltre che dell’importanza delle attività svolte dalle Ong a tutela della vita umana e del fatto che offrono standard di sicurezza molto più elevati delle navi commerciali che si trovano a soccorrere i migranti, il giudice di Palermo aveva permesso a Sea-Watch 3 e 4 di riprendere il mare in attesa della decisione della corte europea.

IL CONFLITTO tra i due Stati è tornato anche nell’udienza sull’Alan Kurdi di mercoledì scorso. Un rappresentante del ministero delle Infrastrutture ha detto che la Germania non sarà all’altezza delle sue responsabilità finché non adotterà regole più stringenti per le navi delle Ong. Dalla Sea-Eye, che intanto ha acquistato un’altra nave, rispondono che la Alan Kurdi è stata considerata sicura dall’autorità di bandiera tedesca, da un altro paese membro come la Spagna (in seguito a un Port state control) e dall’ente di classificazione italiano Rina. «Le discussioni sull’equipaggiamento tecnico e i certificati servono solo a distrarre dalla crisi umanitaria in corso nel Mediterraneo centrale», sostiene Gorden Isler, presidente dell’Ong.

LA ALAN KURDI era finita a Olbia dopo una rocambolesca gestione dello sbarco successivo alla sua ultima missione. Nella seconda metà di settembre scorso salvò 133 persone, ma rimase senza porto. Le autorità italiane e maltesi ignorarono per giorni le richieste di Place of safety. Rispose solo Marsiglia, dove la nave si stava recando prima di imbattersi nel maltempo e trovarsi costretta a ripiegare in Sardegna.