Se il settore bancario italiano negli ultimi tempi fa fatto parlare un po’ di sé – ed in termini non proprio positivi – le cose non appaiono molto migliori nel paese che da anni ci è indicato come lo Stato forte europeo e modello da seguire: la Germania.

La notizia della settimana – o forse, pseudo-notizia – sono i contatti fra i due colossi tedeschi del credito Deutsche Bank e Commerzbank per una eventuale fusione. Eventuale, appunto, perché tutta la stampa specializzata ne parla ma gli interessati hanno dato una smentita alle «voci». Molti si domandano cosa c’è di vero.

Dei due istituti Deutsche Bank è senza dubbio il più famoso e conosciuto. In Italia la sua nomea presso il grande pubblico probabilmente fa capolino in merito al ruolo che avrebbe avuto nei guai del nostro paese nel 2011 che portarono alla caduta di Berlusconi. A gennaio ha avuto un crollo borsistico clamoroso, ha chiuso il 2015 con passività di circa 7 miliardi e ricavi in flessione. Un po’ più preoccupante è la notizia secondo cui avrebbe emesso titoli speculativi per circa 75mila miliardi di euro, circa 20 volte il Pil tedesco..

In effetti i titoli di stampa solo del mese scorso che la riguardano non suonano molto rassicuranti: «Deutsche Bank la peggiore nell’Ue» (La Stampa), «Deutche Bank in picchiata a Piazza Affari» (Teleborsa), «Deutsche Bank: la più grande voragine dell’euro» (Trade-online); «Gli Usa non si fidano dei tedeschi: cattiva gestione in Deutsche Bank» (Corriere della Sera).

Non sarebbe sorprendente da parte delle autorità statunitensi una buona dose di sfiducia: nel monumentale rapporto della commissione senatoriale sulla Grande Crisi finanziaria («Wall Street and the financial crisis: Anatomy of a financial collapse», aprile 2011) i due istituti più citati sono Goldman Sachs e l’istituto tedesco.

I problemi non nascono in un giorno. Deutsche Bank inizia la sua rivoluzione ai primi anni Novanta, trasformandosi da banca commerciale a banca d’investimenti, volendo «fare come Walla Street» e dichiarando di non volere più presidenze di consigli di amministrazione che non siano finanziari, mentre l’allora governo Schoeder taglia allegramente le tasse sui profitti finanziari. Il sistema renano, che rispetto a quello anglosassone aveva delle specificità importanti, slitta sempre più verso il sistema di governo finanziarizzato. Non deindustrializzando come in Gran Bretagna, ma al contrario fondendosi con una vocazione all’export sempre più aggressiva che, evidentemente, impoverisce il sud Europa. Il rovesciamento del modello bancario ha ricadute a cascata – o forse manifesta un cambiamento trasversale profondo – su tutto l’assetto economico-produttivo e sociale. Crolla il lavoro, crollano i sindacati, scalzati da politiche di relazioni industriali decentrate. La frammentazione di queste va di pari passo alla segmentazione fra lavoratori garantiti di seria A e lavoratori a poche centinaia di euro mensili, assistiti paternalisticamente dai programmi governativi (le famose riforme Hartz).

Adesso che l’assetto severamente finanziario dell’attività di credito comincia a mostrare la corda si propongono o ventilano fusioni. Che non si ricorda abbiano mai avuto effetti di risanamento fattuale, o di maggiore stabilità economica. Il ricordo è invece vivo e vegeto nei lavoratori che hanno subito i tagli di personale; tanto per citare un caso poco ricordato ma di casa, il processo consusamente agglomerativo del gruppo Unicredit (sette banche fuse in una, poi ridivisa in tre…) ha lasciato nella memoria il parallelo falcidiare la base di dipendenti e la moltiplicazione di posti di dirigenti e di consulenze, con lo spostamento dei conti correnti ch suscitò la più viva gioia dei correntisti. Vedremo che faranno i tedeschi.