Quanti morti oggi? Intanto lo spettatore massmediatico, di fronte alle stragi di migranti nel Mediterraneo e – scoprono adesso – nel cuore d’Europa dalla rotta balcanica, gira pagina o cambia canale perché è il solito spettacolo, estremizzato «solo» dal numero delle vittime che cresce ogni giorno di più.

Così, paradossalmente, mentre aumenta la tragedia si dilata la passività e l’abitudine alla notizia. Del resto sempre più accomunata ad un programma seriale e raccontata con le modalità del reality: ogni canale tv ormai si prende in consegna sotto le telecamere siglate la sua famiglia di profughi, la segue fin dove la vuole seguire e poi tanti auguri (senza dire che la maggior parte dei disperati non arriverà a destinazione e allora le telecamere saranno spente). Sembra addirittura giornalismo-verità, invece altro non è che la macrabra riedizione di un reality, di un «asso nella mano» giornalistico. Certo si può perfino avere l’illusione, guardando o raccontando, che quel frammento di notizia o di immagine, siano il solo sostegno immaginario che possiamo dare, almeno in assenza di un intervento reale del potere politico che non fa nulla o peggio, allestendo respingimenti, restringendo diritti d’asilo, selezionando, anche per nazionalità, profughi sicuri (dalle guerre) e quelli insicuri (dalla fame), esternalizzando l’accoglienza in nuovi universi concentrazionari, cioè tanti campi di concetramento nel Sud del mondo, preparando nuove avventure belliche.

Ma non è un reality quello che accade sotto i nostri occhi stanchi. Qui è stravolto lo stesso principio di realtà e il giornalismo fin qui realizzato – tantomeno quello embedded – non può bastare. Siamo di fronte ad una svolta epocale che si consuma nella tragedia di centinaia e centinaia di milioni di esseri umani, i nuovi dannati della terra, in fuga da guerre e miseria. E lo spettacolo a lieto fine non c’è. C’è solo la passività dilagante. Da che deriva? Dal semplice fatto che ha vinto l’ideologia della guerra umanitaria che, tra gli altri criminali effetti collaterali, non solo assume la guerra come merito ma cancella le responsabilità dei risultati disastrosi.

Invece è nostra la responsabilità di questo esodo. Fuggono dalle nostre guerre e dalla nostra riduzione in miseria di paesi in realtà ricchissimi di materie prime e terra.

Non siamo di fronte a cataclismi naturali, sui quali peraltro cominciamo ad individuare anche responsabilità specifiche. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale, nell’ordine temporale, Iraq, Libia e Siria (senza dimenticare la Somalia diventata simbolo dell’attuale balcanizzazione del mondo) ha provocato la cancellazione di almeno tre società fino ad allora integrate, con una convivenza etnico-religiosa millenaria; oltre ad attivare il protagonismo jihadista, adesso nemico giurato ma alleato, finanziato e addestrato in un primo tempo dell’Occidente contro regimi e despoti fin lì, anche loro, alleati dell’Occidente e dei suoi equilibri internazionali, alla fine spremuti e occupati militarmente. Se non si afferma la convinzione che la responsabilità è delle guerre degli Stati uniti e dell’Europa, nessuno sentirà davvero il bisogno di intervenire a riparare o almeno a raccogliere i cocci.

Vale allora la pena ricordare che sono un milione e 300mila le vittime di alcune delle «nostre» guerre al terrore dopo l’11 settembre 2001 in Afghanistan, Iraq e Pakistan, secondo i dati del prestigioso «International Physician for the Prevention of Nuclear War», organismo Nobel per la pace negli anni ’80. Un rapporto per difetto che esclude le guerre più recenti, la Libia, la Siria, l’ultima di Gaza. Che la terza guerra mondiale non sia già cominciata? È una vera ecatombe.

Ora non contenti di tutto questo prepariamo con il governo Renzi e per bocca del grigio Gentiloni e dell’annunciatrice Ue Mogherini, dimentichi dei risultati dell’ultima del 2011, una nuova guerra in Libia «con l’appoggio Onu» e «contro gli scafisti» con tanto di previsione di «effetti collaterali che possono coinvolgere innocenti». Il tutto per finanziare da lontano nuovi campi di concentramento, come già con Gheddafi e poi con il governo degli insorti di Jibril. A questo serve l’impegno ambiguo della diplomazia italiana perché nasca l’improbabile governo unitario libico per un paese diviso ormai in quattro fazioni e con L’Isis all’offensiva. Dimenticando altresì che l’ultima guerra oltre ai profughi di oggi produsse subito la fuga di due milioni di lavoratori subsahariani, africani e asiatici che lì lavoravano e che ancora vagano nell’area. Ecco dunque che l’ideologia della «guerra umanitaria» prosegue il suo corso quasi in automatico. È così vero che in pieno ferragosto il Corriere della Sera – la cui storia guerrafondaia sarebbe da studiare a scuola – ha sentito il dovere di scomodare il punto di vista critico di Sergio Romano. Anche lui – che resta comunque «il miglior fabbro» – alla fine, con mille e ragionevoli riserve, conviene che «sì la guerra si può fare»: soprattutto perché in gioco c’è l’approvvigionamento del petrolio dell’Eni. I conti tornano. Ma se la guerra deve essere «umanitaria» che cos’è dunque la disumanità che abbiamo prodotto e che muore affogata o chiusa nei Tir come carne da macello avariata mentre in cammino tenta di ridisegnare, abbattere, sorpassare le nuove frontiere e muri del Vecchissimo continente?

Qui forse le ragioni dell’assuefazione generale. Resta insopportabile la passività di chi si considera alternativo e di sinistra. Chi lavora per un mondo di liberi ed eguali si trasformi in corridoio umanitario, prepari l’accoglienza, attivi il sostegno, diventi camminante, definisca la sua sede organizzativa finalmente europea tra Lampedusa, i porti del Sud, Ventimiglia, Calais, Melilla e la frontiera ungherese da abbattere. il manifesto ha lanciato in piena estate il dibattito che consideriamo necessario se non decisivo C’è vita a sinistra? Speriamo di non trovarla solo a chiacchiere.