Allo scoperto di Stacy Alaimo, curato da Angela Balzano e tradotto da Laura Fontanella per la nuova collana «Postuman3» di Mimesis (pp. 334, euro 24) curata dal gruppo Ippolita, si inserisce in un filone di recenti pubblicazioni in traduzione che permettono ad alcuni testi fondanti del neomaterialismo soprattutto femminista di circolare finalmente anche in lingua italiana. Dai meno recenti come questo, o come Barad e Bennett, passando per Tsing, Despret fino all’ultima Haraway, questi scritti arrivano in un momento in cui il dibattito ecotransfemminista italiano assume un orientamento sempre più politico e situato e, come in Alaimo, anche più orientato alla giustizia sociale multispecie.

L’autrice di Allo scoperto, volume che raccoglie saggi usciti a distanza di vari anni, si muove all’intersezione fra Environmental Humanities e studi culturali e racconta il piacere delle pratiche ecologiste nell’arte e nell’attivismo percorrendo un’infinità di contesti d’azione. Performance ecosessuali, proteste «a corpo nudo» (una delle felici rese della traduttrice, che nella sua nota spiega il suo approccio e la scelta del titolo italiano, in originale Exposed), forme d’arte transpecie, fantascienza speculativa, film, fotografie, poesie, di cui Allo scoperto è fittamente intessuto, non servono ad Alaimo come esempi per spiegare una teoria: sono pratiche dell’esposizione che compongono, ed espongono esse stesse, una teoria praticabile. Il cui funzionamento è «metonimico» (anziché metaforico), come la transcorporeità delle vite di cui Alaimo dice facendosi permeabile a ciò che percorre, mai semplice spettatrice.

ALTRI ANIMALI, alberi, paesaggi sono l’archivio vivo del pensiero di Alaimo che si ritrova e germina nell’attraversarli. Le differenze naturalculturali non sono ricondotte alla matrice della sua propria cultura, ma l’autrice non cede neppure al romanticismo ecologista contemplativo, o peggio nostalgico. Prende invece le distanze da chi cerca ancora la Natura, e la somiglianza con questa (per esempio: anche gli altri animali hanno comportamenti omosessuali, «è osservato scientificamente»), da chi in definitiva la vuole ancora gestire oppure raccontarsi un’altra versione della stessa umanità – ed eteronormatività – di sempre.
«Desedimentare categorie culturali intransigenti», reincantare la razionalità (scientifica, accademica), opacizzare la «neutralità purificata», si può solo complicando e incarnando il quadro, affondandolo nella sostanza condivisa di una vita fluida come l’acqua del mare, in cui passano incontri e piaceri vitali ma anche scorie e rifiuti letali. In cui mettersi allo scoperto, invito costante del libro, diventa soprattutto assunzione di responsabilità, dal momento che essere esposte non è piacevole o possibile per tutti, e può essere doloroso e perfino mortale per molti.

QUAL È IL PRESUPPOSTO della sostenibilità? Anche se sembra un paradosso, è ancora l’estrattivismo, cioé credere che si possa mettere a profitto ma facendo attenzione a tenere le cose un po’ meglio sotto controllo. Qual è l’implicito dell’Oggetto? Ancora il Soggetto, che definisce per definirsi, anche fra le cose ritrovate. Alaimo muove con forza una critica al linguaggio manageriale della sostenibilità tecnocapitalista ma anche alle ontologie orientate all’oggetto (OOO): in particolare all’antropocentrismo mascherato di entrambi che, ignorando il linguaggio posizionato, decentrano l’Umano solo apparentemente, e che sicuramente non lo posizionano mai perché ne trascurano le genealogie, dunque le specificità nel presente.

Quando la OOO (ma anche Bennett, il cui livellamento ontologico, convengo con Balzano e Alaimo, è a tratti problematico) cerca di convincerci che un tappo di plastica e un topo morto possono dirsi e guardarsi allo stesso modo perché entrambi materia dotata di agentività, la domanda su chi vuole morto il topo e chi produce la plastica non viene neppure posta, né sono poste le relazioni tra questi corpi, che sono sempre relazioni storiche e per ciò stesso processi: non abitano l’assoluto delle simmetrie o l’universale delle teorie, ma le differenze e le diseguaglianze che solo i corpi esposti e i loro affetti sanno articolare.

Del resto, da nessuna parte e ovunque sono la stessa cosa: evasioni dalla complessità, dal rischio del prendere posizione e dalla responsabilità politica che ne consegue. Per questo, esporsi, fare attrito, abitare con desiderio ed energia pulsanti quella esteriorità che già ci caratterizza, e altrettanto immergersi, sapere andare a fondo, persino incontrare il dissolvimento nella promiscuità della vita marina, è sempre anche implicarsi (nel senso deleuziano del termine, come Balzano sottolinea), perché ci tiene invischiati nella vita in comune.

USCIRE ALLO SCOPERTO è mettersi in condizione di rispondere a quello che vediamo, non separare il sapere dalle prassi, il privato dal comune, in una dimensione insieme onto-etico-epistemologica, scrive Alaimo con Barad, che soltanto i saperi situati hanno davvero saputo indicare.
I saperi situati femministi, che hanno destituito l’occhio di Dio e i suoi trucchi, sebbene l’alleanza fra femminismi e giustizia sociale multispecie non sia affatto così scontata, come l’autrice rileva.
Le altervite (Murphy) sono sempre allo scoperto, aperte a incontri che le rendono vulnerabili, incapacitate ad arroccarsi. Il riconoscimento del proprio posizionamento è infatti l’esatto contrario dell’io racchiuso, difeso e immune: la vittoria del quale è sempre sterile, nonostante la sua missione sia continuare a produrre e riprodursi. È il presupposto dell’azione politica, che non funziona mai a partire dall’identità ma risuona nelle connessioni collettive, nel riconoscimento etico dove la parzialità non è diminuzione ma premessa di costruzione, fondata sul riconoscimento delle diverse responsabilità e sulla necessità dell’assumerle.

Nulla di ciò che Alaimo espone nel libro può rimanere statico o privato: persino la casa su cui si sofferma all’inizio è un divenire casa, perché ha radici che si intrecciano ed espandono e pareti che respirano, e i corpi che le abitano sono attraversati da mondi che si rispondono. E, come nelle poesie di Hogan che incontriamo nel libro, persino macerie dove la distruzione è ancora capace di fiorire.

ABITARE il dissolvimento è anche destituire la supremazia dello sguardo che agisce separando, e stare in quell’attraversamento transcoporeo davanti a cui si arrestano i filosofi come Bogost, Morton, o persino Derrida quando si vede visto dalla sua gatta, e tocca per un attimo, con assoluto terrore, la possibilità di perdere il privilegio della parola che dà il nome, sbigottimento di cui pure ha sapientemente scritto. La destituzione della supremazia umana di Allo scoperto non conduce al cupio dissolvi di tanta teoria contemporanea, è piuttosto un cedimento potenziante, una forma di militanza – che sa anche andare incontro al fallimento – capace di chiedere scusa e piangere le vite che non sempre contano, eppure mai luttuosa (Protesta e piacere doveva intitolarsi inizialmente il libro), passione politica e politica delle passioni insieme, fatta di fermenti molecolari e «modesti», generativi di relazioni e promiscuità transcorporee.