Tradimento! Ci hanno scippato la Camera! All’indomani del voto per tornare a finanziare le guerre, i siti Maga si sono incendiati di rabbia ed indignazione. La destra trumpista ribolle perché aveva posto il veto perentorio alla ripresa dell’assistenza a Kiev. Marjorie Taylor Greene, mastina del gruppo è tornata a chiedere la  testa dello speaker “traditore” Mike Johnson.

Il voto di sabato ha siglato il ricompattamento dell’establishment e della linea egemonica e una chiara sconfitta per la frangia neo isolazionista dei Maga, difficile non vederla come una sconfitta personale di Trump.

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Forse non del tutto coincidentalmente, il voto bipartisan che ha rotto il “veto” di Trump è avvenuto in simultanea con l’inizio del primo processo in cui quest’ultimo è dovuto stare seduto in un tribunale di New York.

Il procedimento è per i pagamenti illeciti alla porno star Stormy Daniels che profilerebbero interferenza elettorale per aver avuto come scopo di silenziare lo scandalo durante la campagna presidenziale del 2015.

L’esito del processo (il più ”lieve” dei quattro a carico di Trump) non è scontato , ma il danno di immagine sembra evidente. L’ex presidente è stato dipinto dai ritrattisti mentre si assopiva al banco ed è stato ridotto a lamentarsi del troppo freddo in aula – non esattamente l’immagine di condottiero invincibile che vorrebbe proiettare.

Il voto sul “pacchetto guerre” ha scompaginato gli schieramenti e messo in luce alleanze trasversali. Convertito alla causa, lo speaker conservatore ha infatti avuto l’appoggio dei democratici per approvare il decreto.

In sostanza sull’Ucraina i Dem hanno votato compatti per sostenere Kiev mentre la destra si è spaccata in due fra esile maggioranza a favore e irriducibili contrari.

Su Israele invece la situazione è capovolta: tutti uniti a destra (alleata “naturale” di Netanyahu) mentre i Dem sono spaccati – molto più di quello che sembrerebbero indicare i numeri (circa un quinto di voti contrari a ripristinare le forniture di bombe).

Se il voto è stato un punto a favore dell’atlantismo globalista e per l’ordine liberale costituito rappresentato da Biden, la “vittoria” potrebbe essere pirrica per Biden.

Al momento stesso in cui ripristina l’ordine “naturale” della proiezione geopolitica Usa, specificamente su Israele, si trova sempre più isolato e sul fronte interno è sotto il tiro di una contestazione che rischia di scardinare definitivamente la sua coalizione.

Mentre sull’Ucraina si propone facilmente agli Americani come “dalla parte giusta del storia” (o almeno nella maggioranza Onu), nel caso di Israele, gli Usa sono ancora una volta soli davanti al mondo (come evidenziato dall’ennesimo veto al riconoscimento della Palestina al palazzo di vetro).

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Le nuove forniture di bombe sono state approvate mentre a Gaza andava in scena l’ennesima strage di un eccidio condannato da tutto il mondo. L’ecatombe della pulizia etnica in atto (nei territori continuano raid di una operazione che non lascia dubbi e che da ottobre ha fatto 500 morti palestinesi in Cisgiordania).

Contro lo scempio infinito si è sollevato in Usa un vasto movimento di protesta giovanile e studentesco sempre più difficile da ignorare e sempre più oggetto di una insidiosa repressione bipartisan.

Nel mirino ci sono soprattutto le università dove le autorità fanno fronte alle proteste imbavagliando il dissenso con l’uso strumentale del teorema antisemita.

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Ma la crisi morale è profonda e le dilaganti contestazioni giovanili e studentesche contro l’insostenibile strage segnalano una fessura dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per la possibile rielezione di Biden.

Già ora la convention d’agosto di Chicago (manco a farlo apposta) si preannuncia come un possibile replay di quella del ‘68 che, nella stessa città, degenerò in disordini e violenza per l’ottusa repressione di un establishment che non aveva capito l’effetto del Vietnam sull’anima e sulla psiche del paese. Di lì a pochi mesi avrebbe stravinto Nixon. Anche oggi il partito non sembra in sintonia con parti cruciali del suo elettorato che insorge contro una guerra oltremare.

Anzi, i metodi per mettere a tacere le proteste, compresi gli auto da fe in cui amministratori di atenei sono tenuti a testimoniare davanti alla commissione parlamentare per l’antisemitismo (pena la stroncatura della carriera), danno la misura di una sbandata maccartista tanto più inquietante per l’acquiescenza delle istituzioni.

La scorsa settimana è toccato alla rettrice della Columbia university passare sulla graticola dell’inquisizione. L’indomani ha chiamato sul campus la polizia per arrestare cento studenti che ora rischiano la sospensione.

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Insomma, se “l’America è tornata”, come ha esultato il democratico Ted Lieu, a finanziare le guerre per proiettarsi nel mondo, e ad anteporre i sacrosanti interessi nazionali alla statura morale, sembrerebbe prepararsi anche a ripetere errori e traumi “vietnamiti”.