Nella legge di stabilità 2015 compaiono alcune norme volte a semplificare la realizzazione delle infrastrutture energetiche strategiche e a disciplinare il piano delle aree ove consentire la ricerca e l’estrazione di gas e petrolio. L’obiettivo è rendere più agevole l’esecuzione di alcuni progetti – come l’ampliamento della raffineria di Taranto, dove il petrolio estratto dal giacimento petrolifero Tempa Rossa verrà stoccato – e riscrivere, seppur parzialmente, l’articolo 38 del decreto Sblocca Italia, dedicato appunto alle fonti fossili, rispetto al quale si è avuta la più ferma contrarietà dei cittadini (specie lucani), delle associazioni ambientaliste e degli enti territoriali. Nonostante le misure introdotte, i dubbi di legittimità, però, restano. E questo – dopo la decisione assunta dalle Giunte regionali della Lombardia, dell’Abruzzo e della Campania – potrebbe far sì che, entro il 10 gennaio prossimo, anche altre Regioni si rivolgano alla Corte costituzionale affinché censuri lo Sblocca Italia, sebbene per le parti modificate i sessanta giorni previsti per il ricorso decorrano dalla pubblicazione della legge di stabilità in Gazzetta Ufficiale. Insomma, ai dubbi che si nutrivano prima – specie in ordine alla mancata previsione della partecipazione degli enti locali al rilascio delle concessioni – se ne aggiungono ora altri. Vediamo perché.

L’art. 38 affida al ministro dello sviluppo economico il compito di redigere il piano (nazionale) delle aree ove permettere la ricerca e l’estrazione di idrocarburi. Tuttavia, fino a quando il piano non sarà elaborato, tali attività continueranno a essere autorizzate sulla base delle regole che vigevano prima dell’entrata in vigore della modifica. In questo modo, il tentativo di stabilire ove consentire la ricerca e l’estrazione degli idrocarburi potrebbe essere vanificato, non contemplandosi nella legge alcun termine per la predisposizione del piano. Il problema principale è dato dalla procedura che il ministro dello sviluppo economico deve seguire: la legge n. 239 del 2004 gli impone di sentire il ministro dell’ambiente e di stringere un accordo con gli enti locali e le Regioni, in sede di Conferenza unificata. L’intesa deve essere espressa entro centocinquanta giorni; qualora sia scaduto inutilmente il termine previsto, la Conferenza è invitata a provvedere entro ulteriori trenta giorni; nel caso in cui l’inerzia persista, ci penserà direttamente il governo. Ebbene, questa soluzione appare assai discutibile, in quanto risulta pressoché identica a quella prevista dalla legge sul procedimento amministrativo del 1990 e dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 179 del 2012. Con detta pronuncia, infatti, la Corte ha sostenuto che, ai fini del raggiungimento dell’accordo, lo Stato non possa limitarsi a richiedere l’intesa, essendo, invece, tenuto ad aprire una reale trattativa con gli enti territoriali e a reiterare la stessa in caso di esito negativo: per la Corte, una trattativa non è tale quando la legge fissi un drastico termine per la sua conclusione.

Ma non è tutto. Una volta approvato il piano delle aree, le società petrolifere potranno chiedere al ministero di cercare ed estrarre gas e petrolio: per fare ciò avranno bisogno di un «titolo concessorio unico». Prima che il titolo sia rilasciato, la legge impone al ministero di stringere un’intesa con la Regione interessata. Anche in questo caso, qualora la Regione restasse inerte, si seguirebbe la discutibile procedura prevista per l’adozione del piano.
Certo, la legge del 2004 fa testuale riferimento solo al caso della «mancata espressione» dell’intesa e non anche all’ipotesi in cui si abbia una «mancata definizione» della stessa (quest’ultima evenienza è considerata esplicitamente solo per le infrastrutture lineari energetiche). Pertanto, qualora la Regione negasse l’intesa, quale procedura andrebbe seguita? A rigore, non necessariamente quella «più garantista» prevista dalla legge del 1990 (riscritta dopo la sentenza della Corte costituzionale), poiché detta legge si riferisce unicamente al dissenso espresso da «un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità».

D’altra parte, il problema sarebbe ulteriormente complicato dal fatto che lo Sblocca Italia prevede tempi diversi per la conclusione del procedimento (destinato a terminare con il rilascio del «titolo concessorio unico») e per l’espressione dell’intesa regionale.
L’art. 38 stabilisce, infatti, che il procedimento deve concludersi entro centottanta giorni dal suo avvio. L’intesa della Regione, invece, deve essere rilasciata entro centocinquanta giorni dalla richiesta avanzata dal ministero. La domanda è: da quale momento decorrono i centocinquanta giorni? Le ipotesi sono due: 1) il ministero inoltra la richiesta di intesa alla Regione dopo la conclusione del procedimento; a partire da questo momento decorrono i centocinquanta giorni previsti perché la Regione possa esprimersi; 2) il ministero inoltra la richiesta di intesa alla Regione prima che sia concluso il procedimento; questo vuol dire che il ministero avvia il procedimento e richiede contestualmente il rilascio dell’intesa alla Regione, che potrebbe, però, trovarsi costretta a esprimersi prima ancora di conoscere tutti gli atti del procedimento.

Ora, almeno due considerazioni lasciano pensare che il procedimento che si seguirà sarà quello sul quale si concentrano i dubbi di legittimità. In primo luogo, perché se si attendesse la fine del procedimento per richiedere alla Regione l’intesa, i tempi sarebbero più lunghi e questo si porrebbe in contraddizione con lo spirito dello Sblocca Italia, che si propone appunto di velocizzare i procedimenti amministrativi. In secondo luogo, perché in via di prassi è stato sempre così: il ministero avvia il procedimento e richiede da subito l’intesa regionale.

In breve, la forma è salva, ma la sostanza forse no. Con buona pace, ovviamente, di chi sia convinto che l’intesa possieda una sua precisa ragion d’essere: un atto di natura politica, che, in ossequio al principio di leale collaborazione, trae giustificazione dalla «perdita» di competenza regionale dovuta alla decisione dello Stato di attrarre a sé la competenza sulla materia energetica.