Gli statunitensi scandalizzati dalle incursioni russe per aiutare Trump contro Clinton hanno una memoria storica corta. Il loro Paese può vantare una lunga esperienza di interferenze nelle elezioni di nazioni straniere, a dispetto dell’autodeterminazione dei popoli di cui si è sempre proclamato difensore.

Secondo un recente studio di Dov H. Levin, tra il 1946 e il 2000 Washington avrebbe provato a influenzare i risultati di ben 81 competizioni elettorali nel mondo. Nel complesso l’esito di queste ingerenze è stato alterno. Però, secondo i dati di Levin, gli Stati uniti sarebbero riusciti a far vincere le forze politiche che sostenevano in quasi il 60% dei casi.

Tali condizionamenti non sono stati limitati al periodo della guerra fredda, in nome della lotta al comunismo, ma sono proseguiti anche negli anni successivi per insediare o portare al potere governi disposti a cooperare con Washington.

IL TERRENO PRIVILEGIATO di queste iniziative è stato l’America Latina, che gli Stati uniti hanno considerato quasi da sempre parte della propria sfera di influenza.

Già nel 1946 Washington cercò di impedire l’elezione di Juan Domingo Perón alla presidenza dell’Argentina, diffondendo a due settimane dal voto una raccolta di documenti, il Blue Book, che doveva screditare il candidato sgradito all’amministrazione Truman perché ne evidenziavano gli stretti rapporti con la Germania nazista durante la seconda guerra mondiale appena conclusasi.

In Cile, prima ancora di fomentare il golpe del generale Augusto Pinochet nel 1973, la CIA aveva finanziato con almeno 3 milioni di dollari la campagna elettorale del democristiano Eduardo Frei per permettergli di sconfiggere il socialista Salvador Allende nel 1964 e aveva provato a indurre l’assemblea legislativa a ribaltare l’esito del voto popolare nel 1970, proclamando presidente il conservatore Jorge Alessandri, al posto di Allende.

ANCORA NEL 1990, in una sorta di WikiLeaks ante litteram, l’amministrazione di George H.W. Bush fece filtrare ad alcuni giornali tedeschi materiale compromettente sulla presunta corruzione della giunta sandinista del marxista Manuel Ortega, favorendo così la sconfitta di quest’ultimo contro Violeta Chamorro nelle elezioni presidenziali di quell’anno.

Con la fine della guerra fredda pure la Russia post-sovietica divenne campo d’azione per le incursioni degli Stati uniti nelle vicende elettorali delle altre nazioni.
Ad esempio, alla conferma di Boris Eltsin alla presidenza della Federazione russa nel 1996 non fu estraneo un prestito di oltre 10 miliardi di dollari a Mosca, concesso dal Fondo monetario internazionale su pressioni dell’amministrazione Clinton, che servì all’inquilino del Cremlino non solo per rafforzare il proprio prestigio interno, ma anche per coprire alla vigilia del voto spese per stipendi e pensioni che si trasformarono in un accresciuto consenso elettorale.

ANCHE L’ITALIA è stata più volte investita dalle ingerenze elettorali degli Stati Uniti. L’intervento più significativo si verificò nel 1948, quando la posta in gioco era la scelta occidentale della nazione.

Per impedire che la vittoria del Fronte Democratico Popolare, l’alleanza tra il Pci e il Psi, costituisse la premessa dell’adesione dell’Italia al nascente blocco sovietico, Washington intervenne in modo massiccio nella campagna elettorale.

Gli Stati uniti destinarono all’Italia 227 milioni di dollari di aiuti economici nel primo trimestre del 1948 e sfruttarono politicamente i finanziamenti del Piano Marshall per orientare l’elettorato verso i partiti filoamericani.

Inoltre, sobillata dal governo De Gasperi che aveva tutto l’interesse a drammatizzare il rischio di una vittoria comunista alle urne, la Cia destinò alcuni milioni di dollari al finanziamento della campagna elettorale della DC e dei suoi alleati. In tale occasione, il governo di Washington fu coadiuvato nella sua iniziativa dalle comunità italiane in America.

Dagli Stati uniti gli immigrati italiani e i loro discendenti tempestarono parenti e amici rimasti in patria con almeno un milione di lettere volte a scoraggiare il voto per i candidati del Fronte Democratico Popolare.

QUESTA CORRISPONDENZA decantava le presunte mirabilie del modello socio-economico americano, accompagnando le argomentazioni con la forza ben più persuasiva di pacchi regalo e dollari in contanti. Cinque anni dopo, nel 1953, l’ambasciatrice statunitense in Italia, Clare Boothe Luce, minacciò di far cessare gli aiuti economici americani e di congelare gli accordi di cooperazione tra i due Paesi nel caso di un successo del Pci in elezioni particolarmente conflittuali perché disciplinate dalla cosiddetta «legge truffa, che assegnava il 65% dei seggi della Camera al partito o al gruppo di forze politiche apparentate che avesse superato la metà dei voti validi.

NEL 1976, per ammissione dell’ex capo della Cia William Colby, la prospettiva che il PCI conseguisse la maggioranza relativa in Parlamento indusse l’amministrazione Ford a riversare sei milioni di dollari nelle casse della Dc. Ancora una volta negli Stati uniti venne condotta una campagna di lettere per distogliere il voto dal Pci.

A promuoverla, questa volta, furono organizzazioni come gli Americans for a Democratic Italy, un’associazione che aveva alle spalle il banchiere italoamericano Michele Sindona e personaggi legati probabilmente alla loggia massonica eversiva P2.

Il rapporto congiunto dell’intelligence statunitense che sostiene l’esistenza di direttive del presidente russo Vladimir Putin per influenzare le elezioni americane attesta un’evidente inversione di tendenza. Forse stiamo assistendo all’emergere di ciò che Fareed Zakaria ha definito fin dal 2008 un «mondo post-americano».

Gli Stati uniti, in una fase di ridimensionamento della loro egemonia globale, si trovano a subire ora quelle stesse intromissioni dall’estero nella propria politica interna che un tempo erano abituati a esercitare nelle altre nazioni.