L’incontro con Ugo La Pietra è alla Fabbrica del Vapore: l’area industriale della ditta di materiali ferroviari Carminati&Toselli, chiusa nel 1935, e ora un vivace centro culturale comunale. Lo spazio è miracolosamente sopravvissuto alle voraci quanto disordinate trasformazioni immobiliari degli isolati che gli stanno intorno: dal cimitero Monumentale alle aree gentrificate della stazione Garibaldi e dello scalo Farini.
In occasione del Salone del Mobile e del Miart, alla Fabbrica del Vapore, La Pietra presenta la mostra dal titolo Abitare è essere ovunque a casa propria, dove una sintetica quanto incisiva raccolta di opere che vanno dagli anni Sessanta a oggi raccontano quanto inesorabili siano state le trasformazioni della realtà urbana milanese. Inoltre, come queste abbiano portato non solo alla perdita d’identità dei luoghi, conseguenza dell’avvenuta modificazione sociale, ma a fare in modo che «per ora la città è solo una brutta e aggressiva sala da pranzo».
Vogliamo valerci, dunque, della sua posizione critica e del fatto che oggi la «Mecca del design», com’era considerata Milano dai laureati siciliani in architettura negli anni del suo insegnamento a Palermo, mostri le sue crepe. «La gente comincia a dare chiari segni di scontento anche nei confronti di cose banali – ha dichiarato La Pietra nel suo ultimo libro Viviamo affollate solitudini (Politi Seganfreddo edizioni, 2023) – come ad esempio trovare un alloggio, che oggi sembra impossibile a condizioni ragionevoli». Partiamo allora proprio dalla «Mecca del design» e dalla sua più importante manifestazione qual è il Salone del Mobile con il Fuorisalone che ogni anno che passa infoltisce di eventi la sua vetrina.

«Riconversione progettuale credenza» (2016)

Come considera l’uso effimero e diffuso che della città si fa in occasione del Salone del Mobile, quando al permanente consumo distorto che capita agli spazi pubblici, quelli che ormai sopravvivono, si somma la massa di eventi di designer e artisti per la kermesse? Lei che ha riflettuto a lungo sulla dimensione estetica e sociale della realtà urbana, cos’è che non funziona e quali possibilità abbiamo per invertire questa tendenza esclusivamente consumistica?
Occorre distinguere innanzitutto il Salone del Mobile dal Fuorisalone. Il primo ha una sua tradizione che, nel corso degli anni, ha subito dei cambiamenti. Un tempo al piano nobile della Fiera erano presenti le ditte più blasonate come Busnelli, Zanotta, ecc. che davano il «la» e il significato all’intera esposizione, insomma comunicavano un senso di organizzazione, mentre con il Fuorisalone tutto è liberalizzato e non valgono regole. Bisogna riflettere sul fatto che il settore del design non ha da noi una mostra, ad esempio biennale come accade per l’arte o il cinema. Solo attraverso questa forma di esposizione si può dare un indirizzo valido perché si selezionano i partecipanti e si compiono scelte precise che qualificano il prodotto di design. L’Esposizione Permanente di Cantù, ad esempio, rappresentava un riferimento per tutti. Questo negli anni a Milano non è mai avvenuto e nel frattempo i nostri vari marchi sono stati assorbiti dalle multinazionali del mobile.
C’è un Fuorisalone, quindi, che potrebbe rappresentare la parte più interessante della manifestazione perché potrebbe contenere le proposte di design più originali, frutto della ricerca come accadeva a Verona con le mostre «Abitare il Tempo»: un peccato che siano scomparsi i mobili e gli oggetti sperimentali e innovativi che lì furono esposti. D’altronde, il design celebra solo le opere che hanno una produzione, come invece non accade per altre discipline. Capita così che si siano persi i disegni e i documenti dei tanti progetti che non hanno avuto il destino di essere stati realizzati industrialmente. A tutto ciò devo aggiungere un’altra riflessione rispetto al fatto che non ci sia traccia dei moltissimi designer che sono passati per Milano. La ragione è che la città non ha pensato mai di dotarsi di un museo di arti applicate su modello di quelli esistenti all’estero…

Se ne rammaricava anche Rossana Bossaglia che fu tra le poche a sollecitarne la creazione e che è altro da un museo del design.
Su questo argomento ritorneremo, ma vorrei anche avvertire che c’è un’altra mancanza in questa città (e non solo in questa) che interessa il design ed è la mancanza di un’organizzazione disciplinare per l’arredo urbano che ora come è facile constare è in mano a baristi e ristoratori. Anche un gazebo richiede un progetto e vorrei ricordare quelli che ideammo con Ettore Sottsass e Achille Castiglioni negli anni Ottanta per Torino. All’estero tutto ciò non succede. Sono costituiti gruppi interdisciplinari che osservano e curano la città perché anche un gazebo appartiene a quei microcosmi che possono migliorare l’ambiente urbano perché arte pubblica e sociale.

Già nella sua mostra di Foligno nel 2018 aveva raccolto una serie di dispositivi per lo spazio pubblico, come la riconversione in sedute dei dissuasori utilizzati come barriera antiterrorismo che vediamo anche nell’attuale mostra. Tutta la sua ricerca tende all’unità disciplinare in opposizione alla parcellizzazione delle competenze, ovvero alla separazione delle parti che compongono l’attività progettuale. Siamo condannati a vedere incrementata questa tendenza?
Ormai è un fatto assodato che non parlino tra loro molte discipline che interessano il progetto. Il tutto si è incrudito come l’architettura che è orientata alla monumentalizzazione nelle sue forme più funzionali ai nuovi assetti urbanistici. Oggi è necessario inventare un nuovo insegnamento: «Abitare la città». Come una volta s’insegnava l’architettura degli interni. C’è il bisogno di studi sullo spazio collettivo che siano in grado di formare persone competenti per decidere sulla qualità estetica dei luoghi della città: dalle forniture stradali alle fontane, guardando all’arte e non al mercato.

Le chiedo se ha ancora senso per lei parlare di un primato di Milano nel design tra l’aumento della concentrazione dei brand, la lezione dei maestri della modernità dimenticata, le università indirizzate a soddisfare le richieste di una industria che ha difficoltà a difendere i suoi distretti, una volta competitivi.
A prescindere delle energie economiche disponibili e le conseguenze derivanti dall’isolamento nel quale sono costrette le discipline del progetto, Milano con il suo Politecnico attrae ancora una quantità numerosa di studenti. Questa è una realtà di cui tenere conto.
La città ha però perso il suo primato perché non si è aperta all’esterno con il craft, il mestiere, che l’ha sempre contraddistinta. In particolare, non ha trovato i necessari collegamenti con il craft europeo, che a differenza della nostra realtà imprenditoriale, dimostra avere una maggiore vitalità. A noi mancano le istituzioni per farlo, quindi, ci siamo ridotti, una volta passate di mano le aziende storiche del mobile, alla piccola produzione artigianale perdendo competitività. Se ancora si poteva vantare una superiorità nel disegno del prodotto industriale, oggi anche quella è venuta meno per effetto della globalizzazione dei mercati e l’incapacità di riformare l’istruzione universitaria e la formazione tecnica.