«Il generale iraniano Qassem Soleimani è una miscela di James Bond, Erwin Rommel e Lady Gaga, così lo vedono gli sciiti mediorientali. Per l’Occidente è invece colui che esporta la Rivoluzione islamica, sostiene i terroristi, cerca di rovesciare i governi filo-occidentali e scatena conflitti».

Così lo aveva definito l’ex analista della Cia Kenneth Pollack sulla rivista Time, che nel 2017 aveva inserito il generale Soleimani tra le cento personalità più influenti al mondo: a capo delle forze speciali al-Quds dei pasdaran operative all’estero, Soleimani è stato l’artefice dell’espansione iraniana in Medio Oriente e, al tempo stesso, colui che è riuscito a coordinare le milizie sciite in Libano, Siria, Iraq e Iran.

Secondo un sondaggio del 2018, risultava essere più popolare del presidente Hassan Rohani e del ministro degli Esteri Javad Zarif: se si fosse candidato alle presidenziali del 2021 avrebbe sbaragliato gli altri candidati, inclusi personaggi con il turbante nero del calibro di Ebrahim Raisi.

Nel corso degli anni, ad applaudire le gesta di Soleimani sono stati milioni di iraniani, scontenti per l’incapacità della leadership della Repubblica islamica di gestire la cosa pubblica. Per questo, dopo essere scesi in strada a protestare invano per il carovita e la corruzione, molti avrebbero voluto il suo ingresso in politica, anche perché super partes e quindi in grado di attenuare il divario tra falchi e moderati.

Ma lui, il generale dei pasdaran assassinato ieri mattina a Baghdad da un drone per ordine del presidente statunitense Donald Trump, ha sempre dichiarato di non volersi candidare.

In Iran sono stati dichiarati tre giorni di lutto nazionale, il generale Soleimani sarà ricordato come un martire. Sul suo account Instagram, la foto del Corano macchiato di sangue, lo teneva in tasca al momento dell’attentato. E un video in cui è ragazzo, soldato, durante la guerra contro l’Iraq.

Sessantadue anni, capelli grigi e barba corta ben curata, Soleimani era nato in una famiglia di contadini nel villaggio di Rabor, regione di Kerman. Dal 1998 era a capo delle forze speciali al-Quds delle Guardie rivoluzionarie che rispondono direttamente al leader supremo. Di fatto, era diventato il numero due della Repubblica islamica, dopo l’ayatollah Khamenei.

Carattere schivo, era poco noto al largo pubblico fino al 2013, quando era apparso in foto e documentari che lo vedevano protagonista nella guerra in Siria. Fino ad allora aveva sempre preferito muoversi nelle zone d’ombra: quando nel 2001 gli Usa iniziarono a bombardare e a invadere il vicino Afghanistan era lui, il generale dei pasdaran, a prendere le decisioni importanti, di cui il ministero degli Esteri veniva in seguito informato.

Profilo basso anche nel 2006, durante il conflitto tra Israele ed Hezbollah libanesi, quando coordinava gli attacchi nel paese dei Cedri. Nel 2018 si era saputo di un suo coinvolgimento, ad alto livello, nei negoziati per la formazione del governo iracheno.

Da Baghdad, il generale Soleimani andava e veniva spesso. Soprattutto il mese scorso, nel momento in cui le diverse fazioni irachene cercavano di formare un nuovo governo. E aveva avuto un ruolo chiave nello scongiurare l’indipendenza dei curdi iracheni dopo il referendum di settembre.

Per il Pentagono era un personaggio pericoloso, da eliminare anche a costo di un prezzo altissimo in termini di ripercussioni sugli obiettivi Usa nella regione, ma per gli iraniani e il resto degli sciiti mediorientali è stato l’uomo in grado di conciliare interessi contrastanti.