Comprendere Nietzsche è come tentare di abbracciare il mare. Vale per molti pensatori, certo, ma a maggior ragione per un classico della filosofia come lui, eterodosso e asistematico come nessun altro (fin dal suo scrivere aforistico). Eppure si tratta del filosofo più interpretato del Novecento, sostanzialmente attraverso due metodologie distanti (ma in fondo connesse) come il giorno e la notte. Quella ermeneutica, che si concentra sul «ritmo musicale della sua prosa», sull’eccedenza teorica, sul gioco funambolico (e spesso oscuro) delle interpretazioni in cui il soggetto interpretante piega i presunti «autofraintendimenti» del filosofo interpretato, spesso conformandolo al proprio pensiero (un percorso che si dipana da Heidegger a Gianni Vattimo, passando per Foucault).

Oppure quella storico-filologica, aderente al testo del pensatore, in stretta connessione con il contesto storico, alla ricerca di costanti idee di fondo che possano consentirne una comprensione metodica e coerente. Questo secondo metodo è interessato a reperire «fatti» storico-ideologici che, comunque, non garantiscono rispetto al rischio che l’interprete possa forzare il grande classico, soprattutto uno come Nietzsche, convinto egli per primo che «esistono solo interpretazioni, non fatti».

Anche il secondo metodo, quindi, non produce certezze, ma consente a chi lo applica di pervenire a interpretazioni fuori dal coro (che vorrebbe vedere in Nietzsche un protonazista oppure un profeta del postmodernismo), maggiormente suffragate dalla stretta attinenza ai testi e contesti del filosofo, e quindi di gettare luce là dove la notte rischia di far apparire tutte le vacche nere.

È questo il caso di Domenico Losurdo, di cui Bollati Boringhieri ripubblica, in una nuova edizione ampliata dalle risposte ai critici, il monumentale Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (2 volumi, 608+624 pagine, 58 euro).

Sono passati dodici anni dalla sua uscita, e nel frattempo questo volume, capace di suscitare un’incredibile mole di discussioni e polemiche, è stato tradotto in tutte le principali lingue del mondo. La Frankfurter Allgemeine Zeitung ha scritto che «non ci sono molti libri su Nietzsche dai quali si può imparare tanto come da questo», mentre Die Zeit, in un empito enfatico, ha parlato di «un avvenimento intellettuale senza pari», e persino il celebre storico Ernst Nolte si è spinto a scrivere che «a mia conoscenza in questo campo non c’è nulla che, per dimensione e ambizione, possa essere paragonato anche solo lontanamente a questo libro».

Il monumentale lavoro di scavo filologico operato da Losurdo parte da una premessa teorica di fondo: il grande filosofo tedesco è «totus politicus». Nel senso che la maniera per comprendere la grandezza e l’unitarietà del suo straordinario pensiero, che altrimenti risulterebbe dispersivo e contraddittorio, consiste proprio nel portare alla luce il fondo politico che soggiace a ogni sua speculazione, anche quella più apparentemente confinata nei meandri della teoresi pura. Ciò premesso, il libro riesce a dimostrare come il punctum crucis della speculazione nietzscheana sia rintracciabile nella sua essenza reazionaria: in ogni fase e su ogni nodo critico della sua speculazione, Nietzsche combatte in maniera radicale ma geniale tutto ciò che odora di rivoluzione e di democrazia, di uguaglianza e di visione moralistica del mondo umano.

In tal senso, per esempio, si può comprendere l’affascinante percorso polemico che il filosofo ha intrattenuto con alcuni dei grandi nemici storici. Socrate con la sua visione ottimistica della ragione umana, per cui ciascuno poteva aspirare a migliorare la propria condizione di partenza stabilita dal fato. Gesù, la cui miseria nichilistica consisteva nel riferirsi a un dio che non c’è, in nome del quale teorizzare quell’uguaglianza e fraternità fra gli uomini che rappresentano delle illusioni contronatura. Martin Lutero, la cui idea funesta di far leggere il testo sacro a tutti i fedeli, spezzando il monopolio del clero, contrastava con quell’ideale di gerarchia tanto caro a Nietzsche. Oppure Rousseau che, col suo Contratto sociale, iniziò la terribile illusione per cui il popolo tutto potesse e dovesse contribuire alla formazione del governo.

Questo Nietzsche «reazionario» è anche quello che, per Losurdo, accomuna nella sua condanna impietosa socialismo e cristianesimo partendo da un topos celebre della sua filosofia: l’eterno ritorno dell’identico. Questo, infatti, si fonda su una visione circolare del tempo e della realtà che non consente all’uomo e alla sua ragione di operare cambiamenti rispetto al meccanico e ripetitivo fluire delle cose, stabilito in maniera insindacabile dal fato. Socialismo e cristianesimo, invece, come molte delle utopie salvifiche del consesso umano, fondandosi sulla visione lineare del tempo, ritengono di poter pervenire, attraverso un percorso di redenzione (o di rivoluzione), a una salvezza finale che metta fine al peccato originale o alla società dello sfruttamento.

Ogni tentazione rivoluzionaria oppure di affermare una visione moralistica del mondo, rappresenta in realtà l’arma con cui i «malriusciti» e i «preti» vogliono ribaltare l’ordine naturale delle cose. Risiede qui il nerbo dell’utopia di Kant, illusoriamente convinta che la ragione possa prevalere sul terribile gioco della natura e del fato.

Si può certamente vedere in lui un «maestro del sospetto» (Ricoeur), ma soltanto a patto di comprendere che egli intende spazzare i fiori ideologici con cui il potere vuole abbellire la condizione dei subordinati, per affermare la piena legittimità delle catene attraverso le quali il più forte domina sul più debole. In tal senso Losurdo vede in Nietzsche un antesignano dell’opposizione alla grande ipocrisia delle guerre giustificate come «umanitarie», ma anche un profeta del neoliberismo più selvaggio, fenomeni perfettamente consentiti da quell’«innocenza del divenire» che impone al mondo umano guerre e contrapposizioni costanti che gli uomini non devono cercare di mascherare con l’ipocrisia o debellare con la morale.

Come non ripensare all’aforisma 259 di Al di là del bene e del male, dove Nietzsche scrive che «la vita è essenzialmente appropriazione, violazione, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole», e anche «lo sfruttamento concerne l’essenza del vivente», perché «è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza che è, appunto, la volontà della vita».

Alla fine si impone una questione cruciale a cui non risponde neppure Losurdo: dobbiamo forse prendere mestamente atto di una vittoria filosofica di Nietzsche? E non tanto perché avrebbe distrutto il soggetto e le grandi narrazioni, come ritengono in molti, ma perché ha scoperchiato come nessun altro quel fondo di crudeltà e volontà di potenza che pervade il mondo umano, in virtù del quale è irrealistico coltivare progetti salvifici o di redenzione che poggino su una visione morale del mondo.

Visione a cui gli stessi protagonisti non sono in grado di tener fede. Se non altro perché umani, troppo umani.