Qualunque sarà l’esito della vicenda greca se ne possono già trarre numerosi insegnamenti. Per l’oggi e per il tempo a venire. Nonostante una martellante campagna mediatica che mira ad annoverare il governo di Atene tra i populismi antieuropei, affiancandolo alla Polonia o a Marine Le Pen (qualcuno ha voluto perfino scomodare l’impero d’Oriente e la fede ortodossa), quella greca è probabilmente la prima lotta democratica europea e per l’Europa alla quale abbiamo assistito.

La prima volta in cui la tenuta dell’Unione viene affrontata nella sua dimensione politica, economica e sociale. E l’occasione nella quale è venuto pienamente in luce il rifiuto delle istituzioni e dei governi europei di fare i conti con questa “totalità”, nonostante gli enormi rischi che incombono sul processo di unificazione.

Il lungo processo negoziale tra Atene e le “istituzioni” non è stato che un esasperante gioco di finzioni poiché i dogmi, com’è noto, non sono negoziabili e l’Europa è prigioniera di una dogmatica neoliberista che, per definizione, non può essere smentita dai suoi effetti nella realtà. Per quanto disastrosi possano rivelarsi.

Soprattutto nella sua ultima fase la trattativa ha assunto i tratti inconfondibili della lotta di classe: i conti non devono tornare in un modo o nell’altro, ma solo mantenendo inalterati (e possibilmente ancor più squilibrati) i rapporti tra le classi sociali. Le correzioni del Fmi al piano proposto da Atene non mostrano il minimo sforzo di mascherare questa circostanza. Si ricorderà che in anni ormai piuttosto lontani, nella tradizione socialdemocratica, le “riforme di struttura” indicavano una trasformazione in senso sociale e maggiormente inclusivo del sistema economico e politico. Oggi significano l’esatto contrario. Ragion per cui devono essere messe al riparo da possibili interferenze dei processi democratici.

Le socialdemocrazie europee, enfatizzando i lati peggiori della loro storia, coniugando l’autoreferenzialità burocratico-amministrativa con la zelante adesione ai principi dell’accumulazione neoliberista sono diventate il principale nemico della democrazia. In un duplice senso: o occupandone direttamente lo spazio con il proprio decisionismo tecnocratico, o consegnando i ceti popolari alle destre nazionaliste. Non si richiedono particolari doti profetiche per immaginare nullità quali Hollande e Renzi mendicare ben presto il “voto utile” di fronte all’onda montante delle destre. In uno scontro imminente, dagli esiti incerti, tra una Unione insostenibile e i nemici giurati dell’Europa.
Di fronte a questo probabile scenario dovrebbe essere chiaro che Tsipras rappresenta per ora, nel suo isolamento, (almeno a livello di governi) l’unica chance disponibile in difesa dell’Unione europea. Tanto si discute dei rischi di un Grexit sul fronte della speculazione finanziaria, tanto poco se ne ragiona su quello della speculazione politica. Salvo abbandonarsi di tanto in tanto alle solite scemenze retoriche sulla “culla della civiltà occidentale”. Sta di fatto che le istituzioni europee (e i governi nazionali che impongono loro di rispettarne la gerarchia e i rapporti di forze) condividono con le destre nazionaliste un punto decisivo: non può esservi altra Europa all’infuori di questa e dei suoi equilibri di potere. Tanto che la si difenda quanto che la si avversi. Di qui la conclusione che il tentativo della Grecia è contro il principio di realtà.

Tuttavia, poiché nell’opinione pubblica del vecchio continente, e in non poche iniziative di lotta, i dogmi della governance neoliberista europea cominciano a perdere credito, sulla vicenda greca (e non solo) piovono le più incredibili menzogne. I greci che vanno tutti in pensione a 50 anni (misura circoscritta che riguarda soggetti analoghi ai nostri esodati in un paese dove il 26 per cento di disoccupazione rende le pensioni un sostanziale strumento di sopravvivenza) fanno il paio con i “clandestini” negli alberghi a 5 stelle. Ai cittadini europei, presi ormai per scemi dalla mattina alla sera, si lascia intendere che recuperare l’irrecuperabile debito greco, riporterà quei soldi (sia pure indirettamente) nelle loro tasche e non in quelle della grande rendita finanziaria. Bisogna essere ottenebrati dalla birra e dalla televisione per considerarsi “azionisti” del proprio (avarissimo) stato nazionale, secondo la mitologia attribuita al contribuente tedesco. Quanto agli altri paesi indebitati (con tassi di disoccupazione che non si muovono di una virgola) è una gran corsa a taroccare improbabili risultati per dimostrare quanto siano distanti dalla Grecia, se non addirittura in una botte di ferro.

Questo terrorismo ci sospinge a pensare che a vincere (si fa per dire) la partita sarà chi è in grado di incutere maggiore paura. Del resto non è una novità. Le classi subalterne non hanno mai ottenuto nulla se non quando sono state in condizione di terrorizzare la classe dominante. Tutta la storia del Novecento ne è testimone. Da molto tempo non accade. Governi e governati, lavoratori e precari sotto ricatto non rappresentano più una minaccia per le oligarchie. Ma, per la prima volta, la vittoria di Syriza, il braccio di ferro con le “istituzioni”, infine il Referendum, fanno paura. Talmente tanta paura che anche i falchi si affrettano a sostenere che una vittoria del no non significherà necessariamente la fine del negoziato, anche se lo renderebbe sempre più difficoltoso. Certo, la paura crescerebbe, trasformandosi in una forza vincente, se in tutta Europa si cogliesse l’occasione per mobilitarsi contro l’ideologia e la pratica del neoliberismo che oggi la governa negando ogni alternativa. Non è insomma questo un nuovo accenno di “grande politica”? Quella che investe gli interessi dominanti caparbiamente incapaci di ogni compromesso? Se, tra tante, vi è una ragione sintetica per dire no ai diktat è che questo “no” incute finalmente timore a quanti desiderano e concepiscono la “stabilità” come tacita sottomissione alle oligarchie e alla rendita finanziaria. Un no per l’Europa.