L’intervento di Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga uscito sul manifesto il 19 dicembre non ha ricevuto a mio parere l’attenzione che avrebbe meritato, a riprova dell’asfissia ormai quasi completa del pensiero politico in questo paese intellettualmente moribondo. Questo testo è la migliore sintesi dell’ultima speranza di cui la sinistra disponga, al punto che mi chiedo cosa giustifichi l’esistenza della sinistra se non è in grado di farsi carico di questa speranza. Una speranza, si badi, che io non condivido, preferendo la disperazione all’autoinganno.

L’orizzonte è scomparso, dicono Ardeni e Bonaga: l’intera società si dibatte nel giorno per giorno delle misure di restrizione e contenimento della pandemia, e presto si dibatterà nel giorno per giorno della recessione economica, della disoccupazione, del debito che esplode oltre ogni limite di sostenibilità, della depressione psichica, del caos geopolitico, del dilagare di una sorta di guerra civile globale.

La politica, arte dell’esercizio della volontà, tecnica della decisione tra alternative, appare dunque impotente, e gli autori di questo articolo si chiedono come si possa uscire da questa impotenza. Ardeni e Bonaga suggeriscono la cittadinanza attiva in condizioni di uguale potere (isocrazia) come la via per riattivare quella potenza che pare sospesa, o forse dissolta. Risuona qui l’eco di una tradizione nobilissima, a parer mio la più nobile di tutte: la tradizione che discende dal movimento consiliare, si rafforza e si espande nel movimento mondiale del 1968, viene attutita e quasi cancellata dalla dittatura mercatista e riappare talvolta sempre più debolmente, in esperienze sporadiche come fu quella delle “sardine” in un tempo recente.

Ma proprio perché quella tradizione mi sta a cuore, proprio perché la considero il punto più alto che la storia della politica moderna abbia raggiunto, credo sia oggi necessario misurarsi a questo livello per dar senso a una disperazione che considero assai più produttiva della speranza fondata sull’illusione democratica.

Pensiamo a quel che la politica può fare in una condizione come quella che stiamo vivendo, segnata dalla proliferazione di un virus. Mentre la politica pessima di fascistoidi bercianti (Trump Bolsonaro, per tacere dei loro irrilevanti epigoni italiani) rivendica la sua autonomia e la sua potenza contro la dittatura sanitaria, la politica buona (o almeno ragionevole) si limita a farsi da parte e lascia la parola a chi se ne intende: al medico, al virologo, all’infermiere.

La politica, esercizio efficace della volontà, presuppone per l’appunto due cose: l’efficacia e la volontà. E proprio queste due cose mi pare che siano venute meno. La volontà umana è inefficace, e ciò che è efficace non è libero, non è volontario. Forse è giunto il momento di riconoscere che la politica esiste soltanto entro la sfera definita da Protagora con quella sentenza che può essere considerata fondamento e premessa di ogni umanesimo: «L’uomo è la misura di tutte le cose».

È mai stato vero che l’uomo è la misura di tutte le cose? Naturalmente no, ma è stato possibile dirlo, sostenerlo, ed è stato possibile dare efficacia e credibilità a questa volontà di misura: la modernità è forse proprio quel tempo in cui l’uomo proietta un mondo del quale egli stesso è misura. Questa proiezione della misura umana è l’immenso progresso ma anche l’immensa violenza di cui la modernità è stata teatro. Ora quel progresso è finito e quel che rimane è solo l’eredità di quella violenza: scioglimento dei ghiacciai, innalzamento degli oceani, esaurimento dell’acqua avvelenamento dell’aria e collasso psichico planetario.

Protagora non funziona più quando abbiamo a che fare con un agente caotico infinitamente piccolo come un virus, o come la radioattività scatenata da Fukushima. O quando abbiamo a che fare con agenti caotici troppo grandi come il cambiamento climatico. La politica dunque non è impotente per ragioni politiche, come Ardeni e Bonaga suggeriscono nel loro eroico tentativo di salvare qualcosa della speranza umanista. Non è impotente perché ai cittadini viene impedito di esercitare paritariamente il loro potere. Ma perché quel potere, paritario o diseguale, non esiste più, perché la volontà non è più in grado di governare la complessità (letteralmente super-umana) dei processi che la libertà umanistica pervertita in dittatura liberista, ha generato.

Per la generazione cui appartengo (e cui appartengono gli autori dell’articolo cui dedico la mia critica affettuosa) questa fuoriuscita dal paradigma Protagora è fonte di comprensibile disperazione. Ebbene sì, sono disperato, ma non credo che sia il caso di drammatizzare.

La disperazione è una condizione del pensiero che non coinvolge necessariamente il cuore, né il corpo sensibile e desiderante. Forse (come credo stia suggerendo il pensiero che meglio interpreta l’epoca pandemica, quello del femminismo post-umano di Donna Haraway) proprio partendo dal corpo sensibile e desiderante si può trovare una via, post-umanistica e post-politica, per vivere felicemente il declino e la dissoluzione della sfera umana.