Se il reato di tortura, nella configurazione approvata giovedì scorso dalla Camera, fosse stato già disponibile nel codice penale italiano all’epoca del massacro compiuto dalle forze dell’ordine dentro la scuola Diaz durante il G8 di Genova, ottenere verità e giustizia sarebbe stato più facile? Una domanda a cui è difficile rispondere. Ma se c’è qualcuno che può tentare di mettere in campo questa ipotesi e provare a capire se in quel caso gli agenti accusati e poi condannati per la «macelleria messicana» avrebbero potuto essere incriminati di tortura, questo qualcuno è il magistrato Enrico Zucca, il sostituto procuratore generale a Genova che ha condotto l’inchiesta e i processi per la Diaz.

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In particolare, ci spieghi se è lecito ritenere – obiezione sollevata da Sel e dal M5S durante il dibattito alla Camera – che la norma sarebbe stata di difficile applicazione perché restringe il campo delle potenziali vittime a coloro che sono «affidati, o comunque sottoposti all’autorità, vigilanza o custodia» delle forze dell’ordine.

È vero che la formulazione delle legge è ambigua e lascia molti margini di interpretabilità. Però nel caso della Diaz, secondo un’interpretazione estensiva, potrebbe ancora essere applicabile. Perché ci sono delle sentenze della Corte europea che ampliano il concetto del controllo e della custodia da parte delle forze di polizia. La Cedu ha ritenuto per esempio che la valutazione dell’uso sproporzionato della forza – che può dar luogo alla violazione degli articolo 2 o 3 della Convenzione dei diritti umani – si applica anche quando un individuo è già sotto il «full control of the police». Quando cioè la polizia ha nelle mani una persona, anche se tecnicamente non è sottoposta a fermo o arresto, ha l’obbligo di proteggerla. E non può usare una forza superiore a quella necessaria per ridurla all’impotenza. Questa è un’interpretazione della Cedu, però per il giudice italiano è vincolante, come ha chiarito la Corte costituzionale. Perché la Consulta dice che la Convenzione europea dei diritti umani, che nella nostra scala di valori viene appena sotto la Costituzione, non è quella del testo del Trattato ma quella interpretata dalla giurisprudenza della Corte. E dalle sentenze di Strasburgo si ottiene un’interpretazione estensiva che potrebbe essere applicata alla Diaz: se la polizia irrompe in un edificio e ne prende possesso, le persone in quel momento presenti sono sotto il controllo della polizia. È chiaro però che per evitare dubbi sull’interpretazione la norma dovrebbe essere scritta in modo più chiaro.

Ci sono altri punti critici nel testo di legge?

La scelta di tecnica legislativa adottata, di configurare la fattispecie non come un «reato di evento» ma come «reato a condotta vincolata» rende ovviamente più ristretto l’ambito di applicazione. Per capirci, ad esempio l’omicidio è un reato a forma libera, di evento, in cui ciò che conta è il risultato dell’azione indipendentemente dalle modalità con cui viene compiuta. Non a caso, la Convenzione Onu non specifica particolari modalità della tortura – «violenza o minaccia», secondo il testo italiano – ma si limita a dire «con qualsiasi atto». Perché più si entra nel dettaglio, più qualche modalità rischia di sfuggire alla previsione. Pensiamo ad Abu Ghraib: costringere le persone a mantenere certe posizioni, come è successo anche a Bolzaneto, tecnicamente non è configurabile come «violenza o minaccia» ma solo come comportamento vessatorio e umiliante.

C’è poi un’altra limitazione dell’applicazione della norma che riguarda le vittime della tortura e il loro rapporto con il carnefice, e che non è presente nella Convenzione Onu. La vittima deve essere infatti secondo la legge italiana «affidata, o comunque sottoposta all’autorità, vigilanza o custodia» del suo carnefice. In questo modo tra l’altro si crea anche un rischio di sovrapposizione e una possibile interferenza tra il reato e il maltrattamento in famiglia (articolo 572 c.p.). Anche qui non si fa altro che aumentare la confusione.

Alla base c’è il problema più generale della configurazione come reato comune e non tipico di pubblico ufficiale. Lei cosa ne pensa?

Per quanto autorevoli giuristi alla fine abbiano ritenuto questa scelta positiva perché in questo caso ne amplia il campo di applicazione, io credo al contrario che così facendo si perda l’occasione di cogliere la vera natura del reato di tortura, discostandosi dalla tradizione storica, che è quella di essere la violenza del potere e dello Stato dal quale il cittadino si aspetta protezione e per questo lo colpisce nella sua massima condizione di vulnerabilità. Per lo meno, accanto a un reato comune si sarebbe potuto meglio configurare una fattispecie completamente autonoma per il pubblico ufficiale, una tecnica che il legislatore ha sempre adottato nel nostro codice penale. Sarebbe bastato rifarsi un po’ di più alla Convenzione che dobbiamo applicare da trent’anni.

Dei 400 poliziotti che entrarono alla Diaz solo 25 vennero condannati. Lei parlò di atteggiamento omertoso delle forze dell’ordine.

Certo, e questo lo confermano le sentenze dei giudici italiani di tutti i gradi di giudizi e con maggior forza la Cedu. Il problema è che qualsiasi proposta con finalità di controllo viene vissuta come ingiustamente criminalizzante nei confronti della polizia. Anche la proposta banalissima di introdurre i codici identificativi, non a caso menzionata dalla Cedu, solo in Italia è rifiutata dalla polizia. Che sembra avere il diritto di veto. Purtroppo da noi c’è un partito della polizia che condiziona il dibattito e richiama ad uno sterile schieramento. Una debolezza di fondo che poi si riflette sulle leggi. Dico di più: in realtà, e non sembri un’esagerazione, questa legge deve essere “punitiva” nei confronti delle forze dell’ordine, ma proprio per seguire le finalità della Convenzione. Tutta la giurisprudenza della Cedu pone l’enfasi sull’efficacia deterrente del meccanismo repressivo degli abusi. Ma non mi sembra sia stata molto considerata nei lavori parlamentari.

Lei crede che l’allora capo della polizia De Gennaro dovrebbe dimettersi dal suo attuale ruolo a capo di Finmeccanica?

Non sono certo titolato io a dirlo. Rilevo solo che le dimissioni, o il famoso passo indietro, sono un atto di responsabilità, di sensibilità istituzionale, che non attengono necessariamente al giudizio sulle qualità professionali o personali. Durante tutto il processo per i fatti della Diaz abbiamo ascoltato l’esaltazione delle qualità eccellenti di coloro che poi vennero condannati. Come se avere qualità eccellenti, che non si negano, garantisse l’immunità o l’esenzione da critica per gli errori. La recente sentenza della Cedu, spiace dirlo e spiace constatare che altri non l’abbiano detto, individua specifiche violazioni della Convenzione addebitandole a precise istituzioni dello Stato italiano. Quindi fa i nomi e i cognomi dei responsabili.