La transizione, ad Haiti, comincia subito con il piede sbagliato. Dopo un mese di estenuanti trattative, è stata, è vero, finalmente ufficializzata, con il decreto pubblicato venerdì sul bollettino ufficiale Le Moniteur, la costituzione del Consiglio presidenziale di transizione che era stata decisa l’11 marzo nella riunione di emergenza convocata dalla Caricom (la Comunità dei Caraibi) in Giamaica.

Ma per le forze politiche rappresentate nel Consiglio presidenziale, che guiderà il paese fino al 7 febbraio del 2026, quando è attesa l’investitura di un nuovo presidente democraticamente eletto, quel decreto è stata decisamente una sorpresa sgradita.

Il documento infatti non solo non fa riferimento ai nomi accordati per la composizione del Consiglio, ma neppure formalizza la rinuncia del primo ministro de facto Ariel Henry, il quale, malgrado si fosse dimesso (o, meglio, fosse stato costretto a dimettersi) proprio l’11 marzo, si è assunto il compito di supervisionare inizialmente i lavori dell’organismo, a cui spetterà il compito di «partecipare, in accordo con il primo ministro, alla costituzione di un governo inclusivo», favorendo il «dispiegamento delle truppe internazionali» sollecitato da Henry già nel 2022.

Così, in un comunicato pubblicato domenica, organizzazioni politiche e della società civile hanno bocciato il decreto del governo, denunciando «importanti modifiche che distorcono il progetto consensuale» che era stato «pazientemente e faticosamente costruito tra le parti interessate a partire dall’11 marzo».

Dopo aver traccheggiato quanto hanno potuto, «il primo ministro Henry e il suo governo dimissionario hanno deliberatamente scelto di non rispettare gli impegni che hanno sottoscritto», evidenziano le organizzazioni, chiedendo di «istituire le commissioni bilaterali per il passaggio di consegne» e di «insediare al più presto il Consiglio presidenziale nella forma e nei contenuti definiti nell’accordo politico “per una transizione pacifica e ordinata”» che era stato sottoscritto il 3 aprile scorso.

Se insomma la pubblicazione del decreto da parte del governo di Henry doveva segnare l’avvio di una soluzione alla drammatica crisi istituzionale e di sicurezza in cui è sprofondato il paese dall’omicidio dell’ex presidente Jovenel Moise a luglio 2021 e ancor più gravemente dal febbraio scorso, tale speranza è stata già fortemente ridimensionata.

Né l’attuale situazione del paese giustifica un sia pur moderato ottimismo: mentre proseguono gli scontri tra la polizia nazionale e i gruppi armati della coalizione “Vivre Ensemble” guidata da Jimmy “Barbecue” Chérizier – il quale, peraltro, aveva subito escluso il riconoscimento di «un qualsiasi governo risultante» dalle riunioni tenute in sede Caricom -, quasi 95mila persone sono fuggite dalla capitale solo negli ultimi 30 giorni verso le province meridionali, che, secondo la denuncia dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, non dispongono di «risorse materiali e finanziarie per far fronte a questi massicci flussi di sfollati provenienti da Port au Prince».

Nessuno, nella capitale, si può del resto sentire più al sicuro: il primo aprile un gruppo di malviventi ha fatto irruzione nel Petit Séminaire Collège Saint Martial della Congregazione dello Spirito Santo e «per più di sei ore – denuncia il superiore provinciale Raynold Joseph – ha continuato a saccheggiare, bruciare, rubare», mentre sacerdoti e dipendenti fuggivano in strada o nella vicina cattedrale.

Nel paese manca tutto, a cominciare dal cibo. Secondo il Programma alimentare mondiale, quasi la metà della popolazione vive in condizioni di grave insicurezza alimentare, avendo le bande criminali bloccato le rotte di rifornimento e distribuzione del cibo. Una crisi alimentare descritta dal Pam come la peggiore dal 2010, quando un devastante terremoto aveva colpito il paese facendo circa 200mila vittime.