Il fisico Giorgio Parisi, oggi presidente dell’Accademia dei Lincei, segue da vicino l’evoluzione dell’epidemia di Covid-19. Sul tema ha messo al lavoro le tantissime competenze riunite nell’Accademia, che hanno prodotto analisi accurate sugli aspetti più importanti dell’epidemia. Ma Parisi, uno degli scienziati italiani più noti al mondo, ha sempre maneggiato dati e proposto modelli in grado di spiegarli. Perciò, non si limita a organizzare il lavoro degli altri ma è impegnato in prima persona nell’analisi degli scenari.

Sulla base dei dati delle ultime settimane, Parisi offre una proiezione allarmante: se i dati continuano a crescere a questo ritmo, a metà novembre potremmo tornare a contare 500 morti al giorno.

Come nasce questa previsione?

Semplice: dal 15 settembre a oggi l’aumento del numero dei decessi è proporzionale a quello del numero dei nuovi casi positivi. Se la crescita non cambia nei prossimi giorni, significa che i numeri raddoppiano all’incirca ogni settimana. Dunque, in tre settimane raddoppieranno altrettante volte, cioè saranno moltiplicati per 8. Se oggi abbiamo 65 decessi al giorno in media, a metà novembre potremmo arrivare a circa 500.

Questo significa che anche le persone ricoverate in terapia intensiva cresceranno allo stesso ritmo.

A questa velocità potremmo arrivare a 5.000 pazienti ricoverati. Ma non ci arriveremo, perché il sistema sanitario si saturerebbe prima di quel momento. E questo avrebbe ricadute anche su chi non si è ammalato di Covid. A fianco alle vittime attribuite direttamente al Covid, ce n’è un 20% di più dovuto ad altre patologie.

Amici milanesi raccontano che durante il periodo peggiore le ambulanze che di solito impiegavano dieci minuti per intervenire arrivavano in otto ore, perché erano bloccate in coda davanti agli ospedali con i malati Covid da ricoverare sulle barelle. Se i pronto soccorsi si bloccano, per patologie come l’infarto è un grande problema.

Cosa significa che l’aumento è esponenziale, per chi deve pianificare la risposta?

Vuol dire che raddoppiare le risorse sanitarie per fronteggiare la pandemia è una strategia perdente. Al ritmo attuale, significa solo guadagnare una settimana. Il lockdown è l’ultima delle opzioni, ma sappiamo che funziona.

L’esperienza ci dice che un lockdown stretto come quello di marzo blocca l’infezione. Però, durante il lockdown il numero di casi e di vittime si dimezzava circa ogni sedici giorni.

Se si punta a riportare i contagi sotto un certo livello, rimandare di una settimana il lockdown significa farlo durare sedici giorni di più. Più si rimanda il lockdown e più durerà.

Lei però invoca provvedimenti drastici immediati, per evitare il lockdown. Quali sono?

Gli studi internazionali su quali siano le misure più efficaci sono piuttosto contraddittori. Da un lato è un problema, ma è normale che sia così.

I contagi dipendono dalle abitudini delle persone, dalle loro relazioni sociali, dalla struttura produttiva della società, che cambia da uno stato all’altro o da una città all’altra. Le misure necessarie per un’area rurale non hanno necessariamente la stessa efficacia in una metropoli.

In Italia non abbiamo dati precisi. In Germania, invece, il Roberk Koch Institute (l’istituto equivalente al nostro Istituto Superiore di Sanità) classifica i focolai principali, con più di cinque persone, in 14 categorie diverse. Se disponessimo di queste informazioni anche in Italia potremmo capire come e dove intervenire.

Per questo da tempo propone di rendere disponibili i dati relativi ai contagi?

Intanto, non sappiamo nemmeno se questi dati in Italia non vengono comunicati o se non esistono affatto. Ogni regione raccoglie i suoi dati, ma ognuna in un formato diverso.

La regione Lombardia fornisce i dati relativi al numero di chiamate alle Ats lombarde per le patologie respiratorie: è un segnale significativo su come sta evolvendo la situazione. Ma altrove, per esempio nel Lazio, questi dati non ci sono.

È necessario che le istituzioni come l’Istituto Nazionale di Statistica, l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) assumano un’iniziativa pubblica per rendere disponibili a livello centrale tutti i dati a disposizione sull’epidemia.

L’Iss produce un rapporto settimanale molto interessante, ma i dati non possono essere analizzati in formato aperto. Per un’amministrazione pubblica, potrebbe essere persino obbligatorio fornire i dati con cui si costruisce un grafico in formato aperto.

Non sappiamo nemmeno quante persone entrano ogni giorno in terapia intensiva, un dato che in Francia è pubblico.

Senza un adeguato tracciamento dei contatti è difficile frenare l’epidemia. Aveva ragione il microbiologo Andrea Crisanti, quando sosteneva che sarebbe stato necessario aumentare la capacità diagnostica fino a 400 mila tamponi al giorno?

Io avevo scritto che ne servivano addirittura 500 mila, fuori dall’emergenza, se bisogna fare il tampone a chiunque abbia un sintomo sospetto. In una situazione come questa ne servirebbero decisamente di più. D’altronde, puntare tutto sui tamponi e sul contact tracing è stata una scelta del governo italiano.

In Cina hanno usato un’altra strategia, dato che nei primi mesi il numero di tamponi che riuscivano a eseguire era inferiore: facevano il test solo a chi aveva i sintomi, e i suoi contatti venivano automaticamente messi in quarantena per 14 giorni. Ma nel bel mezzo della stagione invernale significherebbe mettere mezza Italia a casa.