All’inizio di giugno il governo etiope ha deciso di rimandare a data da destinarsi le elezioni previste in agosto a causa della pandemia.

Nonostante nelle ultime settimane siano triplicati i casi di di Covid-19 e sia unanime la convinzione che un’espansione dell’epidemia non troverebbe il sistema sanitario etiope pronto, le polemiche per il rinvio del voto parlamentare, fuori e dentro lo stesso partito al governo, non si sono fatte attendere.

L’8 GIUGNO LA PRESIDENTE della camera alta del parlamento, Kereya Ibrahim, si è dimessa accusando Abiy Ahmed di aver violato la costituzione con il solo obiettivo di rimanere al potere. Il primo ministro, premio Nobel per la Pace 2019, con un discorso rivolto a tutti, ha risposto cercando di tranquillizzare i partiti e dicendo che dovranno attendere solo pochi mesi per avere le elezioni democratiche promesse. Ma le polemiche continuano.

Così come è in pieno corso la turbolenta trattativa con Egitto e Sudan sul riempimento della megadiga sul Nilo, la Grand Ethiopian Renaissence Dam, che per gli etiopi sarebbe la soluzione per risolvere una volta per tutte il problema della carenza di energia elettrica in tutto il Paese, grazie agli oltre 6mila kilowat che promette di produrre. Invece oggi rischia di causare un conflitto armato tra i tre paesi coinvolti: la diga modificherebbe in maniera rilevante il flusso del Nilo, e quindi la naturale irrigazione del territorio attraversato dal fiume in Egitto e Sudan.

GLI STATI UNITI sono stati il primo mediatore interpellato per risolvere la questione, ma il 20 giugno l’Egitto ha chiesto ufficialmente che siano le Nazioni Unite a fornire un aiuto per risolvere la complessa questione. Il timore del Cairo è che durante il periodo di riempimento dell’importante infrastruttura venga prosciugata una parte del suo territorio.

Mentre l’ipotesi di una guerra internazionale dell’acqua avanza, le divisioni legate ai conflitti etnici divampano all’interno del Paese.

Abiy Ahmed dopo aver liberato nel febbraio 2018 migliaia di oppositori incarcerati dal governo precedente, ora deve confrontarsi con le divisioni fomentate da molti degli stessi attivisti liberati. Alcuni politici sono tornati a fare opposizione a volte rimarcando le differenze di tradizioni, lingua e costume tra le varie etnie per incitare all’odio sui social, o per aggredire con incursioni armate i gruppi considerati nemici.

ALLA FINE DI MAGGIO Amnesty International ha pubblicato un report intitolato Beyond Law Enforcement che accusa duramente il governo di Addis Abeba per non aver protetto le minoranze etniche dalle aggressioni delle popolazioni maggioritarie. Ma c’è di più, il report racconta grazie a testimonianze verificate che le forze di sicurezza governative regionali si sarebbero schierate con il proprio gruppo etnico, partecipando alle incursioni contro le minoranze e causando centinaia di morti nelle regioni Amhara e Oromia.

In Amhara, il 10 e l’11 gennaio 2019, sono state uccise in questo tipo di incursioni circa 60 persone appartenenti alla minoranza Qimant, che aspira all’autonomia. Gli attacchi, secondo le testimonianze raccolte da Amnesty, sono stati compiuti dalle stesse forze di sicurezza governative, di etnia Amhara. 30 cittadini Qimant sarebbero inoltre stati uccisi a Gondar, portando a oltre 400 i morti da metà ottobre.

ANCHE NELLA REGIONE Oromia si contano migliaia di morti, una parte dei quali legati al confronto tra il governo centrale e l’Oromo Liberation Front, il partito di Jawar Mahammed, l’attivista che ha già aveva spinto la popolazione alla rivolta nel 2016 e che oggi, via social, oltre a denunciare la repressione incita apertamente alla violenza inter-etnica.