“The Intercept”, il giornale online fondato da Glenn Greenwald, Laura Poitras e Jeremy Scahill, ha dimostrato che Facebook vendeva pubblicità razziste e antisemite ai suoi utenti. Proprio nei giorni del massacro alla sinagoga di Pittsburgh. L’autore dell’omicidio di 11 persone era convinto dell’esistenza di un complotto per decimare la «razza bianca», noto come «White genocide». Si tratta di una teoria complottista secondo la quale «i negri» cospirerebbero per cacciare i bianchi dalle loro terre.

Nonostante gli sforzi internazionali per smascherare la falsa tesi di un «Genocidio bianco», Facebook vendeva agli inserzionisti la teoria complottista a un «target dettagliato» di un gruppo di interesse di 168.000 utenti che avevano espresso il favore per contenuti simili. L’azienda, contattata per un commento, ha eliminato la categoria di targeting, si è scusata e ha affermato che non avrebbe mai dovuto esistere. Quante pagine e quante inserzioni di questo tipo esistono ancora su Facebook?

Non ci piace ammetterlo, ma i social, non solo Facebook, sono diventati una fogna. Nati per i motivi più diversi, il loro modello di business si basa sulla vendita dei dati personali degli utenti e sulla capacità di indirizzare la loro attenzione verso specifici target pubblicitari. Più utenti hanno, maggiore è il volume di traffico che possono generare e maggiore il loro valore per gli inserzionisti. Maggiori gli utenti, maggiori i profitti, maggiore il valore delle azioni, maggiori i dividendi per gli azionisti.

Per ampliare la platea degli iscritti ai social il primo obbiettivo è di renderli fruibili attraverso interfacce semplificate e sistemi di ricompensa. Gli stessi dispositivi digitali che usiamo per accedervi sono già predisposti per farlo grazie alle app, software dedicati a prova d’incapace. No, non offendetevi. Siti web, app, social e i dispositivi sono ingegnerizzati come i comandi di una lavatrice per essere usati senza capire come funzionano per davvero. Grazie alla logica del design centrato sull’utente, devono poter essere usati da tutti e perciò fanno leva su abilità umane comuni: coordinamento percettivo, linguaggio e memoria. Ma i social sono luoghi d’interazione che retroagiscono non solo su quelle abilità ma sui nostri «frame» comportamentali, modificandoli.

Ad esempio: perché sui social si litiga tanto? Perché l’assenza fisica dell’interlocutore elimina il timore di rappresaglie fisiche. Perché le opinioni sui social sono tanto polarizzate? Perché gli utenti possono approfittare dell’anonimato e si sentono meno responsabili di quello che pubblicano. Perché odiano tanto? Perché veniamo assegnati a categorie di utenti simili a noi che vedono e leggono le stesse cose, rafforzando conformismo e group thinking.

Le piattaforme social non hanno ideologia se non quella del mercato. Non conta chi sei o come la pensi, contano i numeri che fai – like, fan, follower – insieme alla capacità di spesa nota dall’incrocio di fattori e informazioni anche esterne alla piattaforma. Per questo motivo le policies dei social mettono meno vincoli possibili al comportamento degli utenti, spesso sotto la bandiera di una presunta libertà d’espressione.

L’effetto è che persone che non avrebbero mai ammesso in pubblico di essere antisemite e razziste verso i neri, i gay, o altre «minoranze», lo fanno di frequente nei social. Se a questo aggiungiamo la rabbia sociale di una società bloccata come la nostra, quarta al mondo per analfabeti funzionali (Oecd, 2017) capiamo il successo dell’odio online.