Nuovo intoppo in quell’incubo kafkiano che sono la vita e la vicenda giudiziaria di Julian Assange. Mesi fa la Corte suprema britannica aveva deciso che l’attivista australiano non avrebbe potuto essere estradato negli Stati uniti per problemi di salute e, in particolare, per il rischio evidente che potesse togliersi la vita.

Ora la muta di legulei americani ricorrerà in appello contro quella sentenza e sta cercando di rimettere in discussione la diagnosi di autismo – e quindi del rischio di suicidio – su cui questa si basa. E ci è riuscita.

Pronunciata l’anno scorso dal neuropsichiatra del King’s College Michael Kopelman, la diagnosi era la pietra miliare sulla decisione di non rispedire Assange negli Stati uniti, dove deve scontare 18 accuse di spionaggio e cospirazione al commettere hacking e all’ottenimento (grazie soprattutto a Chelsea Manning) e alla diffusione illecita di informazioni riservate che hanno gettato ulteriore luce sulle già luminose gesta dell’esercito americano in Iraq.

I legali statunitensi la volevano sottoporre a revisione, in quanto non terrebbe conto del fatto che, durante la sua cattività londinese-ecuadoregna, Assange aveva avuto due figli dalla sua compagna, Stella Morris, avvalorando la lettura della situazione come quella di un uomo tutt’altro che sull’orlo del suicidio.

Ieri ci sono state vivaci proteste davanti alla Royal Courts of Justice da parte di sostenitori del fondatore di Wikileaks, reduce da sette anni deliranti in un tinello dell’ambasciata ecuadoregna e da ormai un paio di anni di detenzione in carcere.

Ha parlato anche l’ex leader Labour, Jeremy Corbyn, secondo il quale il governo americano e i detrattori di Assange dovrebbero «farsi gli affari propri e lasciarlo in pace. «È un uomo innocente accusato di giornalismo», ha detto a sua volta StellaMorris.

Lo scorso luglio, il cinquantenne Assange è stato privato della cittadinanza ecuadoregna dopo una sterzata filo-Washington ai vertici di quel paese. Vi si era rifugiato per evitare un’estradizione in Svezia, dove lo volevano processare per una poco chiara vicenda di stupro, che lui ha sempre ritenuto strumentale all’ulteriore estradizione negli Usa.

Se fosse condannato, rischierebbe una sentenza massima di 175 anni di reclusione. Ora l’accusa potrà corroborare le prove a sostegno del proprio ricorso in appello.