Non sono stati neanche fortunati: la loro lettera-appello a cancellare quel po’ che resta di diritto alla privacy è stata pubblicata proprio nelle stesse ore nelle quali scoppiava lo scandalo Pegasus. Quando il mondo ha dovuto prendere atto che i regimi totalitari così come governi eletti – l’Ungheria vale per tutti – utilizzavano il software dell’israeliana Nso per spiare giornalisti, dissidenti, attivisti, leader politici e sindacali.

IL CASO HA VOLUTO che proprio in contemporanea con l’arrivo sui media mondiali dello scandalo, il sito politico.eu mettesse in rete, il loro scritto. Sotto la rubrica «opinioni», ha pubblicato il testo, scritto a quattro mani. Una via di mezzo fra la lettera-aperta e l’appello-richiesta. Richiesta che non sarà così facile comunque ignorare. Perché i firmatari sono Catherine De Bolle, direttrice esecutiva dell’Europol – l’organismo di cooperazione tra le polizie europee, per capire – e Cyrus Vance Jr., procuratore distrettuale della contea di New York. Da una parte all’altra dell’Oceano i due si sono accordati per chiedere la fine della crittografia. «Perché la usano i criminali». Fra i due, il più noto è sicuramente l’americano.

Procuratore che ha sempre tenuto un basso profilo, fino a febbraio quando il suo nome è arrivato un po’ su tutti i giornali statunitensi, visto che è stato lui a promuovere una delle inchieste sulle frodi tributarie di Trump. Lei è un po’ meno famosa, è stata commissario generale della polizia belga, prima di fare il salto verso l’Europa.

Una biografia brillante, neanche macchiata dall’inchiesta di tre anni fa, quando finalmente fu avviato il processo contro un gruppo di poliziotti che aveva massacrato di botte all’aeroporto di Charleroi uno slovacco.
E Catherine De Bolle, appunto all’epoca a capo della polizia belga, fu chiamata a testimoniare.

DUE PERSONE completamente differenti, come carriera, come sensibilità. Accomunati però dall’idea che la crittografia, la difesa della privacy, il diritto alle comunicazioni riservate siano strumenti che servono esclusivamente alle organizzazioni criminali. I due fanno uno sforzo di fantasia, comunque. Perché – ed è forse l’aspetto più divertente di tutta la vicenda – si inventano anche una nuova definizione, un nuovo termine: la «crittografia regolamentata». De Bolle e Cyrus Vance jr. non entrano nel merito, non si avventurano in dettagli tecnici per spiegare di che parlano.

Si limitano a inventarsi una dicotomia: la «crittografia forte», che è quella usata dai malviventi e quella «regolamentata». Quella che suggeriscono loro. E a sostegno del loro ragionamento portano anche dei casi. Come quello dell’«ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan che è stato ostacolato nell’accedere alle prove in un recente caso di traffico sessuale di minori». Dettagli sulla vicenda, comunque, nella lettera aperta non ne forniscono.

PERCHÉ LA DIRETTRICE dell’Interpol ed il procuratore newyorkese la buttano soprattutto su problemi generali. «L’accesso ai dati crittografati – scrivono – può fare la differenza tra risolvere i crimini e lasciarli impuniti… Ora invece le indagini contengono un elemento di casualità, qualcosa di inaccettabile per le forze dell’ordine, per le vittime e per la società nel suo insieme». Il tutto accompagnato, alla fine, anche da un linguaggio che strizza l’occhiolino ai movimenti per i diritti digitali: «Nessun settore, in questo caso l’industria tecnologica, dovrebbe essere autorizzato a dettare le regole per l’intera società».

TANTE PAROLE, le loro, per chiedere quello che un po’ tutte le polizie sollecitano da tempo: una back door, una porticina che consenta agli investigatori di «leggere» quel che ci si scambia in rete, sui social, nelle aree discussioni. Facile la risposta dal punto di vista tecnico. A cominciare da quella fornita proprio l’altro giorno da un vastissimo raggruppamento di organizzazioni (si va dal centro per la democrazia alla Electronic Frontier Foundation, dall’Open Society European Policy Institute a Defend Democracy e all’Articolo19, fino al rappresentante per l’Europa della federazione internazionale dei diritti umani, Fidh).

Anche loro – le associazioni – all’inizio la mettono sullo scherzoso: «Come vi potrebbe spiegare qualsiasi addetto del settore, non c’è bisogno di un ingegnere, le comunicazioni crittografate o sono end to end o non sono crittografate». O le chiavi di cifratura sono sconosciute agli intermediari, ai provider o semplicemente non è più crittografia. O la crittografia consente la lettura solo a chi spedisce e a chi riceve, oppure non lo è. Diventa un’altra cosa. Controllabile, spiabile.

Più tranchant è comunque la parte della risposta che riguarda i problemi politici, i diritti. «Crittografia regolamentata? Stride con quel che accade, con centinaia di giornalisti e difensori dei diritti umani attualmente detenuti in tutto il mondo. Colpevoli di difendere i diritti degli altri e difendere la democrazia». E ancora: «Tanti, molti dipendono dalla crittografia. I membri della comunità Lgbtq+ ne dipendono per garantire privacy e sicurezza. I sopravvissuti alla violenza domestica si affidano a strumenti di crittografia end-to-end per fornire un canale sicuro per fare piani e comunicare con persone fidate».

Giudizi espressi in tante occasioni. Eppure i due si sono sentiti autorizzati a chiedere nuove normative internazionali restrittive. Forse – forse – per il «clima» che si respirava appena prima dello scandalo Pegasus, quando la Commissione europea incaricata di riscrivere le regole della Convenzione di Budapest – un accordo mondiale per il coordinamento nella lotta al crimine organizzato – ha reso pubblica una prima bozza del proprio lavoro.

CON UN TESTO che fortunatamente potrà – e dovrà – essere modificato ma che ha già fatto sobbalzare dalle sedie tutte le associazioni democratiche: lì si prevede la possibilità, per le polizie dei paesi aderenti, di accedere ai dati delle persone sospette, anche se conservate da provider di altri paesi. Senza l’autorizzazione di alcun giudice. Un testo, suggerisce l’Eff, scritto dai rappresentanti delle varie polizie, in stanze chiuse, senza alcun confronto con l’esterno. E allora forse, se è come dice Eff, la lettera-appello di De Bolle e Cyrus R. Vance Jr sembra meno un caso.