Berkeley, l’università dove insegno, non ha avuto un ruolo di primo piano nelle notizie di questi ultimi giorni. Il che può sorprendere, data la lunga storia di impegno politico dei suoi studenti, e il suo ruolo nel definire l’eredità radicale degli anni Sessanta. Abbiamo invece visto, purtroppo, molte immagini da Columbia University, Ucla, e altre università.

Eppure anche qui abbiamo un consistente accampamento pro-Palestina che svolge una protesta pacifica e varie attività di sensibilizzazione, tra cui letture di poesia e letteratura palestinese, e lezioni informali tenute da colleghi storici del Medio Oriente.

L’accampamento è cresciuto gradualmente nel prato che circonda Sproul Hall, sede dell’amministrazione e edificio simbolo del Free Speech Movement, che nel 1964 aprì la stagione delle proteste studentesche. Sui gradini di questo palazzo, nel 1967, Martin Luther King condannò la guerra del Vietnam, e nel 1985 vennero arrestati 156 partecipanti ad un sit-in che chiedeva di disinvestire dal Sudafrica dell’apartheid. Gli studenti di oggi conoscono bene il valore simbolico di quello spazio e lo hanno riattivato usando i loro corpi, rendendosi vulnerabili come profughi attendati.
Un tratto tipico delle proteste studentesche di Berkeley è quello di legare la loro causa a quelle di altre realtà vicine. Sono stati invitati sindacati, associazioni di veterani, ed ex-studenti, alcuni dei quali hanno deciso di piantare anche loro delle tende, creando una sorta di succursale dell’accampamento. L’idea è che ci sono valori di fondo – come la giustizia sociale – che legano generazioni di studenti e comunità locale.

Discutere di giustizia sociale in un’università, ora come negli anni Sessanta, significa innanzitutto affrontare il nodo del rapporto tra tecnoscienza e politica. Non a caso le prime proteste si verificano a Berkeley – l’università di Oppenheimer – in piena Guerra fredda, e il leader studentesco del 1964 rivendica il diritto a parlare di politica in un’università che è diventata «un’inumana fabbrica di conoscenza». Oggi Berkeley manda a Silicon Valley più laureati di ogni altra università, e il sistema della ricerca universitaria continua a giocare un ruolo chiave nel complesso militare-industriale americano. Gli altoparlanti dell’accampamento fanno sentire spesso il ronzio dei droni militari che sorvolano Gaza.
È istruttivo paragonare la gestione della protesta nei diversi campus. Le autorità universitarie sono in una situazione difficile, strette tra le richieste degli studenti, le pressioni dei finanziatori privati, e quelle dei politici locali e nazionali. Le università investono tramite hedge funds, il che rende complesso disinvestire da settori specifici. Il tutto in un contesto di attacco aperto, da parte di vari membri del partito repubblicano, contro l’autonomia universitaria.

Alcuni rettori, non riuscendo a gestire la situazione, o mirando innanzitutto a difendere il proprio posto, hanno delegato ad una polizia militarizzata la soluzione del problema, con gli effetti che abbiamo visto. Ma altre vie sono possibili, come mostrano i recenti accordi raggiunti nelle università di Northwestern e Brown. Per percorrerle bisogna prendere seriamente gli studenti, piuttosto che descriverli come ingenui, ignoranti, criminali, o quinte colonne, un esercizio per nulla nuovo e assai gettonato da giornalisti e politici di vari colori.

No, non sono agitatori infiltrati, sono proprio i nostri studenti: coraggiosi, intelligenti, idealisti (ovviamente!), massimalisti negli slogan come lo sono stati i loro predecessori, e sconvolti dalla distanza tra quello che vedono accadere nel mondo e le aspirazioni di giustizia che trovano nei testi che stanno studiando. Gridano al mondo il loro sdegno morale come lo gridarono gli studenti che protestavano contro l’apartheid in Sudafrica, la guerra in Vietnam, la segregazione razziale in America, e quelli che chiedevano libertà di parola sui campus – ispirandosi alle tattiche (illegali) di disobbedienza civile degli attivisti neri dei primi anni Sessanta.
Ora come allora, il cuore degli studenti è nel posto giusto. Siamo noi, gli adulti, che abbiamo parecchie spiegazioni da dare.