Le parole sono il gioco degli enigmisti, l’arte dei poeti, l’apriscatole del pubblicitario. Qualcuno ricorda lo slogan di un Carosello preistorico che esclamava: «Simmenthalmente buona»? Serviva a vendere carne in scatola, in salsa fonetica. Quanto ai politici dell’era moderna, sul dadaismo moderato di «I like Ike» – slogan per l’elezione 1952 del presidente americano Ike Eisenhover – si sono esercitate generazioni di linguisti e semiologi, a cominciare dal maestro Roman Jacobson.
Ma il giornalismo? Sappiamo com’è andata: il solitario sberleffo quotidiano dei nostri titoli di prima è stato per anni un esorcismo liberatorio contro le finzioni ideologiche mascherate da obbiettività. Prima, almeno, che i social network cambiassero le regole dei media. Oggi il calembour è regola, non l’eccezione.
Prendete un titolo come «Caccia i bombardieri». Anzi, più slogan che titolo. Uno sberleffo, divertente. Come se una mano anonima avesse aggiunto a penna quella «i», dentro uno qualsiasi dei discorsi che vogliono convincerci dell’ineluttabilità dell’acquisto multimiliardario dei dannati F35. Scrivo queste righe proprio il giorno in cui al ministro della difesa Mauro si imputa la gaffe di comparire in uno spot pubblicitario dell’azienda Lockheed, vecchia conoscenza della nostra storia politica nazionale, che gli F35 li costruisce proprio. Si arrabbia il ministro: nello spot c’è finito a sua insaputa, dice. L’azienda conferma (ma è possibile?). Però le circostanze sono interessanti. Si cita una frase di Mauro che dice: amare la pace vuol dire aRmare la pace. Bum. Non che il ministro ci rubi il mestiere, sapremmo fare di meglio. Ma nulla di nulla è più osceno di un calembour del Potere.

2. Questo dicevano i testi sacri: ogni gioco verbale – com’è la semplice aggiunta di una lettera o di una sillaba a una parola consumata dall’uso – apre al lettore un campo intero di significati che le stesse parole in gioco, prese singolarmente, neppure sanno di poter contenere. La comprensione di un calembour attiva perciò un meccanismo di piacere. Estetico (Jacobson). Libidinale (Freud). Sociale e politico, se il gioco è collettivo come nel caso di un titolo di giornale specie quando mira ai bersagli grossi: i tabù della guerra, della religione, del sesso, del pensiero unico.
E a quelli piccoli. Venendo al nostro teatrino politico Grillo è la «forza nuova», ma Andreotti «omissis est». Al pd c’erano un sacco di «amici del giaguaro», che fine avranno fatto? Letta è a «tre piazze» e la casa (di Arcore) «è chiusa». «L’Irto Colle», nei giorni della rielezione di Napolitano aveva il retrogusto scolastico e d’altri tempi che al personaggio si addice. «Col de sac», quel tanto di demodé che non guasta. Gli andrà aggiunto certamente quel «Napolitanistan» più sbarazzino e cinematografico, di tanta poca fiducia per le sorti della nostra democrazia, tanto che il suffisso minaccia di diventare seriale dopo un «Valsusistan» speso a proposito delle vicende dei No Tav. «Preso per il Colle», a proposito del cupo tramonto della stella di Bersani, è vignettismo politico. «No grazia», che illustra una foto di Berlusconi e Napolitano, una piccola crudeltà.
Qui una prima osservazione: il passaggio tra «grazie» e «grazia» gli enigmisti lo metterebbero nel segno della sostituzione, gli studiosi di comunicazione genericamente nella pratica del calembour. Questo semplice meccanismo è alla base di almeno un trenta-quaranta per cento dei titoli che avete letto in questo 2013. Con risultati certamente arguti, e d’altra parte battaglieri: «Bossi-Fine», nei giorni della tragedia di Lampedusa; «Eventi di guerra», sulla preparazione dell’attacco americano alla Siria; «Affondata sul lavoro» (la Repubblica, la Costituzione). Talvolta decisamente satirici: «Arancia Finmeccanica», su non so più quale brutta pagina di corruzione. «Impresa in giro», a commento di qualche geniale idea partorita dal governo Monti.
Seconda osservazione. Un altro consistente gruppo di titoli funziona così: commentano la notizia di giornata con il ricorso a un modo di dire, una frase fatta, il titolo di una canzonetta. Il risultato è venato di sottile e spietato cinismo. Se io titolo «Orecchie da mercante» per dire lo scandalo delle intercettazioni dell’Nsa americana, capisco che la notizia non è poi così tanto sorprendente dal punto di vista di un quotidiano comunista. E anzi può essere riferita, illuminata, da una frase fatta ripescata dall’abitudine. Ma a sua volte quella frase sarà illuminata dalla notizia (le orecchie da mercante, com’è noto, sono quelle di chi non vuol sentire). Con un salto virtuosistico, in quella prima pagina, il titolo vero però sta dentro la foto: che riprende un’immagine circolata in Rete con una correzione all’ormai storico slogan dell’elezione di Obama: «Yes we scan». Formidabile.
Ma lo slogan si presta bene a certi giochi. Come l’allegro «Yes we cannabis», nostro titolo di prima il giorno dopo la vittoria californiana nel referendum sulla legalizzazione medica della marijuana (e rielezione di Obama). Più importante aggiungere che i titoli di prima pagina del manifesto non esisterebbero senza una fotografia. E se un tempo potevano inserirsi a pieno diritto nella categoria dei poster (in tanti li hanno usati così), addirittura del manifesto murale (un manifesto, su il manifesto) oggi, semmai, i nostri titoli devono farsi largo tra i post, l’unità minima di comunicazione nel mondo in Rete.

3. Terza osservazione. Talvolta i due procedimenti – il calembour verbale e l’uso di una frase fatta – si sovrappongono. «Lavorare sbanca» è citazione alta, Cesare Pavese più Cgil, quest’ultima è la notizia e la solidarietà è palese. «Sana e robusta» (la Costituzione) è altrettanto simpatizzante. Non così «Alla larga intese» slogan piuttosto virtuosistico peraltro. Infine. Per tornare al campo dello «scherza con i fanti» dico altri due miei preferiti: «Soldato scelto», sulla condanna del marines Manning; e «Squadraccia mobile», per via di certe ruvidezze della nostra polizia. Il premio per il miglior titolo «scherza coi santi» di quest’anno, invece, si assegni senza indugio a questo: «A Bologna dio Cei», partorito il giorno del referendum comunale sul finanziamento alle scuole private. Da notare qui la finezza della minuscola su «dio» e della maiuscola su «Cei» – che è militanza applicata all’ortografia, una vecchia tradizione di questo giornale – e adombra un riferimento lontano alle vecchie e misteriose scritte autostradali «Dio c’è». Lungamente indagate, queste ultime, dagli studiosi di leggende metropolitane, tanto per chiarire meglio il concetto.
A proposito. Chi fece il titolo «È rimorto il papa»? Neppure wikipedia lo ricorda bene. Probabilmente Il Male. O forse fu Lotta Continua? Roba di sinistra comunque, mangiapreti d’altri tempi. Correva comunque l’anno 1978, pomposamente detto «dei due pontefici», giacché nulla si sapeva di quel che sarebbe accaduto dopo: Paolo VI, Papa Luciani. Il rimorto, appunto. Il titolo, in elegante distico, proseguiva così: «Panico tra i filatelici». E questo accrediterebbe definitivamente Il Male. In tutto ciò, qualcuno sembra ricordare che fosse il manifesto. Non è così. Ma il falso ricordo non era neppure così fuori dal mondo per via di quell’altro titolo: «Il pastore tedesco», che trent’anni dopo fece ridere (o almeno sorridere) mezzo mondo all’elezione di Papa Ratzinger e sembrava ribadire ottimamente una tradizione.

Il manifesto, invece, ha titolato quest’anno «Rimoriremo democristiani» citando un suo vecchio e storico titolo (e in lontananza sentivi come un coro: «Amen»). Nei giorni convulsi dell’elezione del nuovo papa – con un po’ d’ansia da prestazione, possiamo ammetterlo? – invece abbiamo frugato nella nostra memoria canzonettara. Si tirò fuori un lievissimo «Non è Francesco». Molto pesava, quella sera, il dubbio legato a certe ombre nel comportamento passato del gesuita Bergoglio, ai tempi della dittatura argentina. Dubbio che è andato ben presto allontanandosi dal fuoco della cronaca (portandosi dietro anche l’incisività del titolo), riempita da altre novità nel comportamento del nuovo pontefice. Da qui, un nuovo titolo: «Il papa mobile», che invece è carino. Definitivo, oltre che positivo, quanto meno possibilista e meno mangiapreti del solito. Anzi, fa il paio con quel «Il padre nostro» che ha salutato, sempre in prima, la morte di Don Gallo. «Nostro» e «padre», prima ancora che prete.
Da mangiapreti però ci si è trovati ad accompagnare l’uscita di scena di Ratzinger con lepidezze canzonettare tipo «Vacanze romane», e «Stasera esco». Né bisognerà dimenticare, per valutare meglio l’efficacia dei titoli di quei giorni, i toni della folle diretta con le tv a reti unificate e le telecamere puntate sull’elicottero che portava il papa dimissionario a Castelgandolfo. Ecco una quarta considerazione: i nostri titoli non vivono mai da soli.

La quinta e ultima osservazione è che ai personaggi della propria commedia in qualche modo ci si affeziona. Il commento all’ultimo discorso dell’ex pontefice recita: «L’inceneritore», a metà tra un horror di serie B e un’inchiesta sulle scorie tossiche. Ratzinger ci mancherà, un pochetto. Perché è stata un’altra «scoria italiana», come abbiamo titolato una volta, ma seriamente.