Alimenti, cosmetici, fibre, tessuti, mattoni, carburanti e molto altro sì. Foglie, infiorescenze, olio e resina no. È questo in sintesi lo spartiacque delineato dalle Sezioni unite penali della Cassazione per quanto riguarda i prodotti commerciabili nei Cannabis light shop. Nelle motivazioni della sentenza del 30 maggio scorso, rese note ieri, l’organo massimo della Cassazione evidenzia i limiti e i punti oscuri della legge 242 del 2016, nata con l’obiettivo di promuovere la coltivazione e la filiera della canapa di piante di cannabis sativa L. nella loro interezza, laddove la lettera sta per «legale», ossia contenente il principio attivo Thc nella quantità massima dello 0,6%.

Ora i giudici spiegano che mentre «la coltivazione è consentita senza necessità di autorizzazione», resta reato la vendita di quelle parti della pianta di solito usate per effetto rilassante, anche nella sua forma «light», se «in concreto» hanno un «effetto drogante». Perché su in questo caso si rientra nella normativa sugli stupefacenti inserita nel Testo unico 309/1990. Se però finora qualche esercente ha venduto infiorescenze o oli di cannabis light, ha una scusante. In quanto, osservano i giudici, «la novella legge promuove la coltivazione di piante oleaginose e da fibra, le quali rientrano, prima facie, tra quelle in cui in Italia è vietata la coltivazione».

IN SOSTANZA, secondo la Cassazione, prima di formulare accuse, bisogna tenere conto di criteri oggettivi, «quali l’assoluta oscurità del testo legislativo» che lascia spazio ad «asimmetrie interpretative». Motivo per il quale può diventare difficile, in sede processuale, riconoscere il «dolo» del commerciante che abbia venduto finora hashish e marijuana light.

Nel fare chiarezza, però, i giudici cassazionisti presieduti da Domenico Carcano fanno notare che «non assume alcuna rilevanza, al fine di escludere l’illeicità della condotta, il mancato superamento delle percentuali di Thc», in quanto l’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti vieta tutta una serie di attività di messa in circolazione di sostanze indicate nella tabella II, tra le quali la cannabis, senza alcun riferimento alla quantità di tetraidrocannabinolo presente nel prodotto. Mentre «la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di Thc proveniente da semente autorizzata», «elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, infiorescenze, olio e resina». Usati a scopo ricreativo.

VERREBBE DA PENSARE che sia questo il punto debole, il tabù, il “reato” da perseguire: l’uso ludico della canapa. Perché se «effetto drogante» dovesse mai avere una cima di marijuana contenente Thc allo 0,5%, cresciuta da sementi legali, perché mai non dovrebbe averlo allo stesso modo un biscotto o una ricotta prodotti con quella pianta?
Ma tant’è. La stessa Cassazione infatti invita velatamente il legislatore ad «intervenire nuovamente sulla materia – nell’esercizio della propria discrezionalità e compiendo mirate scelte valoriali di politica legislativa».

Un invito che diventa richiesta pressante da parte della Coldiretti, perché non si può dimenticare che «i terreni coltivati a cannabis sono aumentati di dieci volte in cinque anni, passando dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4000 stimati per il 2018». In tutte le regioni, dalla Puglia al Piemonte, dal Veneto alla Basilicata, ma anche in Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna, spiega Coldiretti, dalla cannabis si producono ormai prodotti di ogni tipo: dalla ricotta agli eco-mattoni isolanti, dall’olio antinfiammatorio alle bioplastiche, fino a pasta, biscotti e cosmetici. Prodotti assolutamente commercializzabili, anche secondo la Cassazione. Tutto, ma le foglie no.