Una reale transizione ecologica, ha ragione sul piano teorico Guido Viale, si può realizzare solo attraverso il coinvolgimento di tutta la società. Ma, ci domandiamo, perché la maggioranza dei cittadini dovrebbe farsi coinvolgere se questo richiede dei sacrifici, in termini di comodità, sobrietà, cambiamenti radicali negli stili di vita? Rinunciare a stare in pieno inverno con la t-shirt in casa, o tenere accesso tutto il giorno il climatizzatore nelle torride giornate estive. Perché dovrei farlo proprio io, e che cosa cambia se i miei consumi energetici o alimentari (a base di carne) diminuiscono, dato che rappresentano una quota assolutamente infinitesimale dell’impatto ambientale globale. Ma, ammettiamo pure che questo accada, che la stragrande maggioranza dei cittadini cambi stile di vita, quali ripercussioni avrà sulla crescita economica, sull’occupazione?

Partiamo da un fatto: la società dello spreco è funzionale alla crescita del Pil, ma rema contro la conversione ecologica. La società dell’obsolescenza programmata per i beni di consumo non alimentari è funzionale alla crescita economica, ma è assolutamente contro la conversione ecologica. Se, ad esempio il nostro frigorifero durasse (come avveniva fino agli anni ’70) mediamente 30-40 anni, o la nostra lavatrice/lavapiatti durasse vent’anni e non 5-8 di oggi, le imprese che lavorano in questo settore subirebbero un crollo della domanda, i lavoratori messi in cassa integrazione diventerebbero nemici della conversione ecologica se non avessero delle alternative.

Ugualmente nella filiera della plastica, dove il governo italiano, grazie anche a Renzi, si è opposto ad una messa al bando dei prodotti monouso di plastica. Pensiamo solo all’industria legata all’auto tradizionale con motore a scoppio. Con il passaggio all’auto elettrica, ormai inevitabile, solo in Italia secondo stime attendibili salterebbero intorno a 170mila posti di lavoro. Non è un caso che Confindustria e sindacati dei lavoratori abbiano insieme protestato e chiesto che l’impegno preso dall’Italia per l’eliminazione delle auto tradizionali che usano combustibili fossili venga procrastinato.

Se non vogliamo un ritorno allo scontro tra classe operaia e movimenti ecologisti, come è avvenuto più volte in passato, dobbiamo immaginare un intervento pubblico che promuova una domanda alternativa. Questo significa che il governo dovrebbe avere una strategia di medio-lungo periodo, con un quadro complessivo dei settori che devono essere ristrutturati per ridurre il nostro impatto ambientale, i nuovi settori che devono essere promossi e hanno bisogno di una domanda pubblica iniziale, ed infine un cronoprogramma che dichiari tempi e modalità di realizzazione. Ovviamente oggi di tutto questo non c’è niente. Si procede a tentoni e si pensa di utilizzare le risorse finanziarie del Pnrr per rilanciare le strutture economiche esistenti o ampliarle, a partire dalle infrastrutture per l’alta velocità.

Richiedere un forte e determinato intervento pubblico nell’economia sul lato della domanda non è una scelta ideologica e va oltre la disputa tra neoclassici e keynesiani. Se Keynes negli anni ’30 del secolo scorso aveva rovesciato l’approccio classico che affidava all’offerta, e quindi alle imprese private, il compito di trovare l’equilibrio macroeconomico, oggi non è più sufficiente una generica politica della domanda per tendere alla piena occupazione.

La crisi ecologica ci impone di qualificare questa domanda pubblica orientandola verso settori ad alto valore aggiunto e basso impatto ambientale. Un importante ruolo potranno giocare gli investimenti nella cura del territorio, nella ricerca teorica ed applicata, nell’economia circolare, nei materiali ecosostenibili, nella cultura (questa reietta, ultima ruota del carro di tutti i governi), nell’elevare il livello medio di istruzione, nella telemedicina, nella sanità territorializzata, ecc.

Un grande sforzo andrà fatto per trasformare l’agro-industria e zootecnia, dove gli allevamenti intensivi andranno aboliti, senza fare aumentare sensibilmente il costo degli alimenti. Per questo non si può lasciare che il libero gioco della domanda e dell’offerta trovi un nuovo equilibrio, ma trasformare la struttura del mercato agro-alimentare con un ridimensionamento del ruolo della grande distribuzione a favore di filiere corte e un’alleanza, che già esiste in tanti rivoli territoriali, tra consumatori ed aziende agricole.

La transizione ecologica se presa sul serio è una sfida gigantesca che non può essere gestita da nani, ma richiede la presa di coscienza della maggioranza della popolazione insieme ad un governo che faccia una scelta coraggiosa e coerente in questa direzione.