“Madonna Pazzi” di Donatello, Berlino, Bode-Museum: un confronto dei punti di visione

Questione di altezze. Potrebbe sembrare una pedanteria, invece è una discussione importante, che involge molti aspetti storiografici e museografici, quella che ha avviato Stefano Pierguidi col suo provocatorio e ben documentato articolo su Alias-D del 7 aprile scorso (Orsanmichele, la controversia dei punti di vista).
La ricucitura dei contesti originali – materiali, spaziali, funzionali, formali e alla fine anche, ma come ossatura dei precedenti contesti, non come sovrapposizione nostra, diciamolo a chiare lettere, ideologici – credo sia l’orizzonte di ricerca più importante per la storia dell’arte di domani, di contro ai dominanti eccessi di superfetazioni ermeneutiche, divertissement intellettuali o political correct che siano, destinate – scommetto – a essere un giorno completamente dimenticate. Pian piano andranno sperimentate restituzioni al contesto originale, ove questo ancora esista e sia potenzialmente reintegrabile, per offrire esperienze esemplari.
In parte si comincia a fare, o avviene in occasione di qualche mostra particolarmente intelligente. Ma quella cospicua porzione del patrimonio che ha preso da tempo la strada della musealizzazione è giustamente consegnata a questa sua seconda vita, storicizzata e irrinunciabile, e quindi è legittimo proporre punti di visione comodi e ravvicinati, altri da quelli per cui l’opera era stata concepita.
Per altre generazioni il contesto, nel senso largo di cui sopra, era quasi un fastidio. Roberto Longhi senza imbarazzo negli anni sessanta auspicava che si strappassero gli affreschi della Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca, di modo che si potessero apprezzare comodamente e da vicino nelle sale di un museo, anziché storti, dal basso e da lontano, nella cappella maggiore di San Francesco ad Arezzo. Per noi è pazzesco il solo pensiero! Quante cose capiamo e apprezziamo vedendole là, in precise interazioni di spazi e punti di vista che mutano via via che ci muoviamo! Negli stessi anni si procedeva a indiscriminati strappi di affreschi, per l’appetito di scoprire le sinopie e farle viaggiare, senza mai documentare la situazione originaria, separando le cornici dalle scene o lasciandole in situ, e via dicendo. Un capitolo di storia del restauro su cui gravano ombre non ancora ufficialmente raccontate dall’agiografia corrente su Ugo Procacci & C.
Ora abbiamo una sensibilità diversa. La reazione è cresciuta fra gli anni ottanta e novanta. Io stesso credo di essere in qualche modo responsabile della ricollocazione dei Mesi di Benedetto Antelami nel primo loggiato orientale del Battistero di Parma, verso il 1992, perché avevo scritto un articolo su «Il giornale dell’arte» per auspicarla e il compianto Gianfranco Fiaccadori se ne fece paladino. La sintesi suprema di quegli altorilievi, spesso fraintesi come di bottega a causa di tale apparente schematicità, era in funzione di una visione da lontano e molto dal basso; la collocazione in quella loggia è del resto sicura, perché vi sono murati i segni zodiacali quando mancano nel blocco autonomo. L’effetto fu di grande impatto ed è importante serbarne memoria fotografica, ma a distanza di anni riconosco le ragioni di chi il 12 settembre 2020 li ha voluti riabbassare dentro ai nicchioni, dove ricordo di averli sempre visti e apprezzati da vicino anche io da ragazzo. Fui anche fra quelli che salutarono positivamente la scelta ardita e discussa di rimettere al suo posto l’affresco strappato di Pisanello con San Giorgio che si appresta a combattere il drago, in Sant’Anastasia a Verona, dopo la mostra a Castelvecchio del 1996, dove lo si era visto molto da vicino, e dopo che per anni era stato appeso in sagrestia, a pochi metri da terra. Che Pisanello avesse pensato un affresco fitto di dettagli virtuosi incredibili per una destinazione altissima, sul frontespizio della cappella Pellegrini, traguardabile al fondo della navatella destra, è un paradosso su cui invito sempre i miei studenti a riflettere. In questo modo egli voleva alimentare attorno a sé il mito di un pittore di bravura inarrivabile, anche concretamente! Però noi abbiamo diritto di apprezzare più da vicino ogni piega della pelle di quelle figure palpitanti. Forse è il caso di ripensarci.
Fra gli allestimenti recenti più importanti va annoverato quello della facciata arnolfiana di Santa Maria del Fiore, ricostruita nel nuovo Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, ricollocando le statue originali in una maquette 1:1, che ha il limite di trasmettere un’immagine di grigio algore hi-tech, da bilanciare coi marmi caldi e policromi di cui si vedono alcuni frammenti in una sala accanto. Molti hanno salutato la giustezza di quel tentativo di ripristinare la percezione originale, di sotto in su e da lontano. L’optimum sarebbe stato prevedere, nella chiusura della corte preesistente, uno spazio più ampio che permettesse di realizzare in altezza un plastico con copie delle sculture e fare vedere le stesse da vicino, lì davanti, di modo da indurre il visitatore a una doppia percezione e allo sviluppo di ragionamenti conseguenti. Una visione però moderatamente rialzata è in ogni caso per me opportuna. Non basta la regola standard di impostare le opere al di sopra dei 110 cm e porre la visione degli occhi dei protagonisti quanto più possibile vicino ai 160 cm circa, ciò che ovviamente non vale vivaddio per la grande statuaria e per le grandi pale. Giusto trovare un compromesso ragionevole, ricordando come anche nel caso di opere di formato più maneggevole si sbagli spesso gravemente a porle troppo in basso. Un caso da manuale, la Madonna Pazzi di Donatello nei musei di Berlino. A livello d’occhio deve stare il parapetto inferiore, di modo che appaia affacciarsi in scorcio illusionistico di sotto in su e sbalzi fuori in tutta la sua forza prorompente. Ma anche alla mostra di Palazzo Strozzi era messa troppo bassa e si vedeva incongruamente lo spessore del parapetto, che non si doveva vedere!
Si potrà poi obiettare che oggi le ricostruzioni virtuali possono esimerci dal cercare di suggerire il punto di visione originale in un allestimento museale. Ciò è senz’altro vero, pur essendo consapevoli che in questo genere di restituzioni 3D siamo ancora ai primi passi e probabilmente fra qualche decennio (spero) si sorriderà della goffaggine, delle astrazioni sommarie prive di textures plausibili e delle distorsioni ottiche grandangolari dei rendering di oggi. Ma soprattutto per me un punto deve essere chiaro, ed è la necessità vorrei dire ontologica di una distinzione chiara fra reale e virtuale. Guai a pensare a fondali a video-mapping o simile a integrazione della presentazione decontestualizzata e fortemente ravvicinata di opere concepite per tutt’altro punto di visione. Se si vuole continuare a dare un senso alla visione delle opere in originale va salvata la loro aura, che vuol dire anche condizioni rilassanti e misurate di fruizione, illuminazioni equilibrate e non a effetto emergenti dal buio, assenza di apparati eccessivi (come ad esempio nel Museo di palazzo Chiericati a Vicenza).
Il video del resto prevarica sempre, fatalmente. In una mostra sui Crocifissi giotteschi a Rimini, nel 2021, L’oro di Giovanni, a sfondo mistico-estetizzante, io stesso, irritandomi non poco, mi scoprii attratto più dagli enormi dettagli proiettati sulle pareti che non dagli originali che stavano lì accanto! E lo stesso vale per i video, svianti anche per grossolani sbagli nei rendering 3D dell’architettura dipinta, che disturbano il visitatore nella sala del polittico di Piero della Francesca alla Galleria nazionale dell’Umbria. Si allestiscano piuttosto sale multi-mediali a integrazione della visita o si prevedano QRcode con collegamento ad app ricostruttive o realtà aumentate, ma si tengano distinti i due registri. A queste condizioni un giorno si potranno proporre sofisticate restituzioni virtuali dell’opera nel contesto originale, e così anche invitare i visitatori a conoscere e andare a riscoprire i luoghi di provenienza sparsi nel territorio, e al contempo salvare la percezione ravvicinata, senza che questa sia una pura forzatura.