Ogni tanto, quasi ogni giorno, in quel turbinio di indignazioni orarie che è diventato il dibattito pubblico si manifesta lo sdegno per le condizioni di sfruttamento di qualche lavoratore. Può capitare che faccia specie che l’organizzazione dei concerti di Jovanotti chieda volontari per ripulire le spiagge: zero euro per una giornata intera di lavoro, compensata da un biglietto per il concerto e un gadget speciale. Può capitare che il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti posti un video-selfie sventolando la busta paga di 28 euro di una lavoratrice in cassa integrazione di Mercatone Uno.

Ogni volta queste storie sembrano svelare un arcano; in realtà continuano a nascondere il grande rimosso della politica italiana: la divisione in classi. Non è il lavoro che deve tornare al centro del discorso pubblico, come insiste chiunque, dal governo all’opposizione; è la classe. Continuiamo a parlare di ceto medio impoverito dalla crisi, di ragazzi italiani costretti a lasciare l’Italia per andare a fare i camerieri in Inghilterra, di persone che non ce la fanno a arrivare alla fine del mese; ne parliamo come se queste persone non avessero un nome. Beh, a dispetto della vulgata che le classi sociali non esistono più, tutta questa gente appartiene a una classe sociale e un nome ce l’ha: si chiama proletariato. Il proletariato non è una strana forma antropologica dell’ottocento, operai con gli occhi pieni di fuliggine che vivono negli slum nella cintura urbana di Liverpool – il proletariato indica, anche nel riassunto più banale di un’analisi marxista, quella classe che non ha rendite ma vive di reddito da lavoro salariale.

Come ricorda Mauro Vanetti, nel suo ultimo libro La sinistra di destra, citando i dati Istat, in Italia il 2,8 per cento delle famiglie ha profitto/interesse/rendita come fonte principale di reddito, mentre più del 50 per cento vive di lavoro dipendente (compreso quel 10 e passa per cento di false partite iva). Se negli ultimi anni del Novecento si è pensato che la divisione borghesia/proletariato non ci fosse più utile, e che fossimo diventati tutti classe media o ceto medio; oggi ci rendiamo conto invece che persino molti di quelli che aspiravano alla borghesia si sono proletarizzati. Inoltre, a dispetto di quegli altri – ancora più in malafede – che parlano di questa entità sociale come popolo, c’è da obiettare che non metterei nello stesso insieme chi possiede una fabbrica italiana – magari in crisi; e chi lavora – magari sfruttato – per quella fabbrica italiana.

Sembrano banalità? A Marx e Engels non lo sembravano. Se ragioniamo di coscienza di classe, a me non serve a nulla avere la coscienza di essere ceto medio impoverito: mi sale al massimo un po’ di depressione o di risentimento. Se io capisco invece che la mia assenza di diritti è determinata dai privilegi di qualcun altro, o se realizzo come il mio pluslavoro produca il plusvalore di qualcun altro, forse posso sviluppare qualche sentimento politicamente più spendibile. Come per esempio: l’odio di classe.

Anche questo, dell’odio di classe, sembra un concetto desueto, da ricacciare nelle segrete della storia dopo averlo stigmatizzato a dovere. Quando Edoardo Sanguineti lo rivendicò in un’uscita pubblica nel 2007, fu quasi linciato; eravamo in epoca pre-crisi, le magnifiche sorti e progressive del neoliberismo erano un orizzonte che occupava tutta la visuale.

Oggi, dodici anni dopo, mentre l’odio personale, civico, il cinismo sovranista (come lo definiva con un conio caricaturale l’ultimo rapporto del Censis) è comprensibilmente il sentimento prevalente di ogni discorso pubblico, l’odio di classe sembra ancora un tabù. Sarebbe invece sacrosanto riscoprirne il suo valore politico, proprio in contrasto all’odio emotivo, individualizzato, la bile scomposta che può essere diretta a caso, contro i poveri, gli stranieri, o il vicino di casa. L’odio di classe è semplicemente invece il modo in cui questo rancore si traduce in una potenza politica – è sempre stato così – andando a riconoscere i responsabili dello sfruttamento, delle disuguaglianze, della ferocia delle divisioni in classi.

Come può accadere questo? Non con le proteste tanto meno quelle simboliche, forse. Serve sbandierare una busta da 28 euro in un post? O indignarsi per la notizia del plurilaureato siciliano costretto a emigrare in uno Starbucks a Dublino, del fisico nucleare che fa il rider di Deliveroo, della nigeriana che anche quest’estate passerà l’intera estate nel ghetto di Foggia a raccogliere pomodori per 25 euro a giornata? Forse è necessaria invece organizzarla, la protesta, e darle un valore politico – la famigerata lotta di classe.

C’è una bella differenza tra protesta e lotta. La protesta è spontanea, spesso idiosincratica, può scoppiare e evaporare nel giro di poco. La lotta no, va organizzata, ma soprattutto coinvolge persone che si sentono parte di uno stesso soggetto; per questo si è sempre detto lotta di classe e non si è mai parlato di protesta di classe. Se in quest’estate si vuole capire dove ripartire a sinistra, invece di agitare strani soggetti astratti: le periferie, il lavoro… ci si può leggere o rileggere Il capitale di Marx, così per l’autunno, che non sarà facile, si è tutti un po’ un passo avanti.