La legislazione elettorale è da anni il banco di prova delle misure volte a garantire la rappresentanza di genere. Nelle aule della politica, nel parlamento nazionale come nei consigli regionali e locali, la presenza femminile è stata su percentuali addirittura inferiori a quelle nell’Assemblea costituente eletta nel 1946. Per incrementare tale presenza sono stati ideati dal 1993 vari interventi, come l’obbligo nelle elezioni comunali di prevedere in ogni lista almeno un terzo di candidati di sesso diverso e nelle elezioni politiche con le liste bloccate alternate di candidati dell’uno e dell’altro sesso.

Quando nel 1995 queste misure sono state ritenute incongrue da una discussa sentenza della Corte costituzionale, si è proceduto nel 2003 a precisare nel testo medesimo della Costituzione, all’articolo 51, che la rappresentanza politica è retta dal principio di uguaglianza e che «a tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Ma già nel 2001 si era sancito in Costituzione che per i rispettivi consigli le leggi regionali «promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive».

Il fatto è che le misure definite in maniera sintetica «quote rosa» fanno parte della legislazione elettorale a tutti i livelli.
Così, per l’attuale disciplina sul parlamento europeo, stabilita da una legge del 2014, le liste non possono contenere oltre la metà di candidati dello stesso sesso; nell’ordine di presentazione i primi due candidati devono essere di sesso diverso; l’elettore può esprimere sino a tre preferenze, ma deve scegliere candidati di sesso diverso. È il meccanismo della doppia preferenza di genere.

L’aggiramento di queste regole è possibile con le candidature plurime. Le elezioni politiche del 2022, ad esempio, hanno visto un decremento delle donne elette, appunto a mezzo di donne pluricandidate, “premiate” sì con l’elezione in collegi sicuri ma poi candidate in altre circoscrizioni a scopo meramente riempitivo.
La preannunciata candidatura della presidente del Consiglio e della segretaria del Pd in tutte o molte circoscrizioni per le elezioni europee elude la normativa sulle pari opportunità, una vera e propria violazione della legge. Meloni e Schlein non andranno mai a Strasburgo: lo vieta l’incompatibilità con le cariche di governo; lo impedisce il fatto che lo scontro politico esige la presenza dei leader di partito sulla scena nazionale.

Di fatto, risultano avvantaggiati i candidati maschi che inviteranno a votare se stessi e la rispettiva leader, nel massimo rispetto della norma, ma in una prova di forza dove ormai il riequilibrio di genere nella rappresentanza politica è stato… abolito.
Le norme sulle pari opportunità non sono certo un dogma e possono essere modificate. Ma ancora una volta va denunciato che nel nostro Paese le regole sono sì stabilite, ma sono eluse ed abusate alla prima occasione, come se il loro rispetto sostanziale fosse solo un optional.