È stato, via via, un giovane scapestrato che guidava attraverso il deserto dal centro del Paese fino alla California quando le strade erano poco più che piste per le diligenze; poi ha viaggiato a scrocco, e rischiando la vita, sul tetto dei vagoni merci da uno Stato all’altro; quindi si è mantenuto agli studi suonando in un’orchestra jazz; infine ha scelto di arruolarsi durante la Seconda guerra mondiale, mettendo da parte per qualche anno una carriera da medico generoso e disponibile che avrebbe condotto per molti nella sanità pubblica della sua città.

Nato nel 1905 a Kansas City, e arrivato all’invidiabile età di 105 anni, Charlie White è stato un testimone dell’intero Novecento americano: un uomo di provincia, un repubblicano di vecchio stampo, quando ancora si parlava del «partito di Lincoln», che ha sempre visto di buon occhio il cambiamento, la modernizzazione e la democratizzazione del Paese.

Il giornalista del Time e del Washington Post David Von Drehle ha fatto di quest’uomo comune, ma per molti versi straordinario, se non altro per l’età raggiunta e le cose viste nel corso della lunga esistenza, il protagonista del libro che ha scritto dopo che da Washington, dopo copriva da tempo il cuore della politica nazionale, ha scelto di trasferirsi nella capitale del Missouri: Il mondo di Charlie (traduzione di Luca Bernardi, Longanesi, pp. 254, euro 16).

Seguendo come in un romanzo la vita di Charlie, Von Drehle riflette in realtà sull’ultimo secolo, sulle grandi trasformazioni che hanno reso gli Stati Uniti il Paese a un tempo potente e diviso che sono oggi, spesso spinto da uno spirito innovativo, ma anche pronto a cicliche derive isolazioniste, attraversato ancora oggi da un razzismo violento e dai torbidi fantasmi del passato, da una rabbia e da un odio che sembrano in grado di mettere in discussione le basi della convivenza civile e le stesse istituzioni della Repubblica, come accaduto con l’assalto del 6 gennaio del 2001 a Capitol Hill al termine della presidenza Trump. Il cronista che ha raccontato per oltre trent’anni politica e presidenti ai suoi concittadini, voleva in realtà scrivere una sorta di «favola» destinata ai propri figli che ora, cresciuti, non reclamano più la lettura della buonanotte. L’esito è un viaggio suggestivo dentro la Storia americana che offre qualche risposta e stimola molti, proficui quesiti.

Nato a Denver, in Colorado, per lavoro ha vissuto a New York e Washington e ora si è trasferito a Kansas City. «Il mondo di Charlie» è frutto dell’incontro con quest’uomo, ma anche del fatto che lei ha scelto di rivolgere lo sguardo alla provincia americana, a quell’heartland poco raccontato dai media?
Anche se l’ho scritto pensando a lettori di ogni tipo, il libro è un atto d’amore nei confronti di quella che è diventata la mia casa adottiva, Kansas City, e più in generale verso tutti coloro che vivono nelle regioni interne del Paese. Chi vive qui spesso si sente disprezzato o dimenticato dai centri di potere delle due coste che controllano gran parte di ciò che offre la cultura americana. Credo che invece il mio libro offra un affascinante ritratto del tipo di persona plasmata dalla vita del Midwest e ricordi ai lettori il contributo di queste zone alla vita degli Stati Uniti.

Lei racconta anche il ruolo che Kansas City ha svolto nella storia nazionale: da maggior mercato del bestiame, insieme a Chicago, a centro dell’industria dell’auto, da «laboratorio» di Walt Disney a capitale del jazz… fino alla mafia. Per capire il Paese vanno narrati storia locale e contesti specifici?
Assolutamente. Gli Usa sono tra le nazioni del mondo che contengono al loro interno le maggiori differenze: è impossibile raccontare il Paese senza scrivere da molti, diversi luoghi. E Kansas City vanta una storia così ricca perché si è sviluppata nel luogo dove si incrociavano le vie di comunicazione e degli affari d’America. Qui le culture regionali si mescolavano dando poi vita a qualcosa di nuovo e diverso.

Charlie ha affrontato con resilienza tutte le difficoltà della sua vita, riuscendo ad andare avanti: una metafora di ciò che l’America non è più, visto che oggi appare ferita, divisa, «ferma», data l’età dei due sfidanti per la Casa Bianca?
Uno dei miei obiettivi era ricordare ai lettori che in passato abbiamo già attraversato momenti difficili. È vero, oggi siamo profondamente divisi, scossi dalle azioni degli estremisti, ma non più di 100 anni fa, negli anni Venti, gli elettori se la prendevano con l’immigrazione e il Ku Klux Klan divenne il partito politico dominante in gran parte del Midwest e dell’Ovest del Paese. Siamo stati divisi sulla gestione della pandemia, proprio come l’America era divisa un secolo fa sulla reazione all’epidemia di influenza. Alcune persone hanno preso le armi per contrastare l’obbligo delle mascherine e la quarantena. Molte altre ritengono che l’economia sia incerta. Ma non è certo peggiore dello stato dell’economia del 1929, quando arrivò la Grande Depressione. Ecco, di fronte a tutte queste sfide, l’esempio di individui come Charlie ci dice che possiamo superare anche i momenti più difficili finché c’è gente che fa del proprio meglio senza incolpare gli altri e affrontando il futuro con coraggio e speranza.

Attraverso Charlie White lei racconta il ’900 degli americani: crescita e sviluppo non senza contraddizioni o violenza. Eppure l’epilogo attuale, con il possibile ritorno di Donald Trump, sembra contraddire tutto ciò: che cosa è andato storto?
Credo che la maggior parte dei sommovimenti avvenuti in America negli ultimi anni si rifletta in realtà in tutto il mondo, e penso che siano dovuti prima di tutto agli enormi e rapidi cambiamenti apportati dalla tecnologia digitale. Spero che in prospettiva questi cambiamenti producano più bene che male, ma eravamo pazzi a pensare che la Storia fosse finita, che la libertà avesse vinto e che un futuro pacifico fosse a portata di mano. Ogni generazione deve lottare per il futuro. C’è un lato oscuro nella natura umana e, se non lo combattiamo, prevarrà. Con una battuta si può dire che stiamo scoprendo che tutto ciò che dovevamo temere era già descritto in Star Wars.

«Il potere destabilizzante dei social network ha trasformato la politica»: nelle righe del suo libro c’è una delle cause della rabbia che domina l’America?

Senza alcun dubbio. Ritengo che i social media siano l’avanguardia dei pericoli posti dalla tecnologia al nostro modo di vivere di cui ho parlato prima.

Charlie ha sempre votato repubblicano, eppure sembra essere molto lontano non solo da Trump e dai suoi sostenitori, ma anche da quei governatori che mettono al bando i libri. Stiamo parlando dello stesso partito?
Attualmente il Partito repubblicano è perduto e senza leader. Il controllo è nelle mani di un uomo che non ha mai trascorso un giorno da repubblicano: Donald Trump. Lui ha semplicemente saputo vedere quanto il Gop avesse ormai perso il timone e cogliere il momento per assumerne il controllo come un pirata che si impadronisce di una nave fantasma.

Quando, il Grand Old Party, che fu il «partito di Lincoln», ha cominciato a cambiare volto in questo modo? E si tratta di un percorso reversibile?
Un vantaggio del sistema bipartitico americano è che i partiti dominanti sono incentivati a cambiare per raggiungere di volta in volta una maggioranza operativa. Per una serie di ragioni, questi incentivi al cambiamento sono però soffocati in questo momento dai membri più radicali dei due schieramenti. Ma prevedo che col tempo i repubblicani saranno costretti a rivedere le loro attuali posizioni e a schierare candidati che piacciano all’ampia parte centrista del Paese. Quando Donald Trump non sarà più sul palco – qualunque cosa accada – il partito dovrà capire verso quale futuro andare.

Kansas City, foto di Arthur Rothstein, Library of Congress

Lei racconta come Charlie, nato nel 1905, fosse cresciuto in un contesto in cui ancora echeggiava il ricordo della Guerra Civile, combattuta trent’anni prima. Guardando alle polemiche odierne sull’abbattimento delle statue degli «eroi» confederati, si ha l’impressione che quelle passioni non siano ancora sopite. E questo malgrado quel mondo fosse stato edificato sullo schiavismo. Perché, a suo giudizio?
Mi vengono subito in mente due ragioni. Innanzitutto, 150 anni non sono poi così tanti, in realtà, per digerire un evento così traumatico. Quando fu combattuta la Guerra civile americana, fu per molti versi il conflitto più letale e violento della Storia. La nazione era intrisa di sangue e, come mostro nel libro, anche uno della mia età ha potuto avere un amico (Charlie) cresciuto ancora circondato da veterani della Guerra Civile. Non è perciò qualcosa di così lontano. In secondo luogo, i nostri antenati non hanno affrontato con successo le conseguenze della guerra. Questa lotta orribile ha esaurito la nazione, in senso morale, e la fine della schiavitù non è stata accompagnata da un forte impegno per l’uguaglianza. In un certo senso, oggi l’America sta combattendo la battaglia per l’uguaglianza che avrebbe dovuto essere vinta all’indomani della guerra , nel 1865, ma non lo è stata.

Come un personaggio da romanzo, Charlie sembra aver vissuto molte vite: quali consigli darebbe ai suoi concittadini?
Ci inviterebbe ad avere coraggio, a trattare anche i nostri nemici con gentilezza e a smettere di lamentarci mentre c’è del lavoro da fare per un futuro migliore. Lui pensava che la Terra fosse l’unico posto che abbiamo e l’«oggi» l’unico tempo. Sta a noi – gli individui come le nazioni – scegliere se vivere o meno secondo questo dono.