Anche Antonio Bello, come Papa Francesco, veniva dalla «fine del mondo», da quella Alessano povera e arcaica che sorge a pochi chilometri dal Capo di Leuca, finis terrae, lembo estremo d’Europa, margine di un continente che qui si sfrangia in paesaggio urbano rarefatto e campagna assolata. Forse da questa estremità, da questa marginalità, si vede con più nitidezza la verità dei consorzi umani e dello spirito che li governa: come se una lontana periferia fosse capace di farsi sporgenza, da cui cogliere l’insieme delle cose, da cui esercitare quel discernimento che ci fa essere attori della storia e cercatori di futuro.

Don Tonino – così si faceva chiamare da tutti il vescovo pugliese – appare in evidenza una delle più potenti fonti di ispirazione del lessico e della gestualità del pontefice che si è dato il nome del poverello di Assisi. Lo si è sentito nelle parole straordinarie che Papa Francesco ha pronunciato ieri nel suo viaggio pugliese, sulle orme di un Vescovo che si fece povero per amore dei poveri, che sfidò i potenti per difendere gli impotenti, che si fece «folle» per contrastare la razionalità delle guerre, che incarnò una «santità» antitetica alla magia, alla superstizione, al miracolismo commerciale che spesso droga l’immaginario cattolico.

Don Tonino non fu troppo amato dal clero e dalle gerarchie ecclesiastiche, fu spesso ammonito e richiamato all’ordine, fu vissuto come una spina nel fianco da quella Chiesa spettacolare e trionfante che, con Wojtila, stava conducendo la sua campagna repressiva contro la «teologia della liberazione» in America Latina. E fu letteralmente messo in croce dal fior fiore del giornalismo italiano, in primis Indro Montanelli, e dalla classe dirigente democristiana dell’epoca. Perché quell’uomo alto e sorridente, con quell’eloquio passionale e carismatico, non si limitava all’esortazione domenicale dello «scambiatevi un segno di pace»: la pace l’andava seminando con la critica esplicita ai processi di militarizzazione della sua terra.

La pace fu la rivolta contro l’installazione dei missili di nuova generazione, contro l’uso per azioni belliche delle basi militari di Gioia del Colle e di Amendola, contro la disseminazione di poligoni di tiro nel paesaggio incantato delle Murge. Contro, cioè, l’idea di un Sud «arco di guerra» rivolto contro altri popoli ancora più a Sud. Il suo sogno «ad occhi aperti» era un Mediterraneo «arca di pace», crocevia di genti, di culture, di fedi, capaci di tradurre laicamente quell’antica profezia di Isaia a cui aveva dedicato i suoi scritti più audaci: convertire gli strumenti della guerra e della morte in strumenti della vita e del lavoro («forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci»), investire sulla politica del disarmo («un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo»), educarsi alla non-violenza («non si eserciteranno più nell’arte della guerra»).

Don Tonino fu un pacifista, non un pacificatore: già nel cuore degli anni 80 intuiva le insidie del riemergere del razzismo e della xenofobia e visse l’accoglienza degli stranieri in prima persona. Denunciò la violazione del diritto alla casa e in episcopio ospitò famiglie di sfrattati. Di notte girava sulla sua utilitaria a portare soccorso a chi trovava riverso sui marciapiedi, ai bordi di una globale indifferenza. Camminò sempre con gli ultimi e sempre respinse le lusinghe dei primi. Era al molo di Bari ad accogliere quella moltitudine assiepata sulla nave Vlora, in fuga dall’ Albania ormai implosa e in cerca di riparo sulla nostra costa. Ed era al porto di Ancona, in quel dicembre del 1992, in partenza con la sua «Onu dei poveri», in direzione della martoriata Sarajevo. E furono giorni in cui l’utopia di pace intimidì il realismo di guerra.

Gli anni che ci separano dalla sua scomparsa hanno visto, invece, trionfare la guerra come igiene «democratica» e «umanitaria» del mondo, l’artigianato del terrore e l’industria bellica hanno imprigionato le nostre vite e i nostri pensieri in una gabbia disperante, l’assuefazione alla strage altrui rende il dibattito pubblico anaffettivo, la cacciata dei migranti e persino dei profughi rievoca le antiche storie della colpevolizzazione delle vittime. E la politica purtroppo da lungo tempo diserta la trincea della pace. Per questo la «profezia» di don Tonino, finalmente abbracciato da quella Chiesa di cui fu servitore, ci parla e ci interroga ancora. E va bene che lo facciano santo: purché non ne facciano un santino.