A pagina quattro della relazione annuale 2017 -pronunciata ieri alla Camera dei deputati- il presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Angelo Cardani tocca un punto cruciale. «Nell’approssimarsi del ventennale dell’Agcom (il 31 luglio prossimo cadrà l’anniversario della legge 249 del 1997, ndr), è giusto richiamare le principali linee di azione, anche al fine di delineare le possibili direzioni verso nuove e necessarie competenze», così recita il testo.

Serve, per dirla con il lessico di Pier Luigi Bersani, una sorta di tagliando: a fronte di una macchina che scricchiola visibilmente. Pur in un quadro di ostile accentramento decisionale, la questione obiettivamente si pone.

Altri compiti dovrebbero essere assegnati, in particolare sull’enorme territorio degli algoritmi – laddove si pone davvero il problema della sovranità nazionale – e sull’immensa geopolitica del moderno «Palazzo d’inverno»: quello abitato dagli Over The Top e dai poteri finanziari.

Tuttavia, è arduo pensare di aggiungere ulteriori funzioni ad un’istituzione che fatica a coprire quelle previste dall’articolo 1 della norma, alla cui fantasia innovativa si deve la prima «autorità multimediale». Primato condiviso all’epoca con la Finlandia, mentre negli altri paesi europei vigeva il doppio regime: telecomunicazioni da una parte, editoria e radiotelevisione dall’altra.

Ecco, proprio la parte che più attiene al sistema nervoso del villaggio globale, vale a dire la tutela del pluralismo delle culture e delle idee, risulta poco battuta e spesso elusa. Ad esempio, sul tema della par condicio «zero carbonella», come dicono i bambini.

Non solo. Con ironia certamente involontaria, la relazione parla della fusione tra Repubblica, Stampa e Secolo XIX nel gruppo Gedi-Itedi, ma non dà conto delle eventuali iniziative anticoncentrazione intraprese, visto che le quote di mercato sono note. Eccedenti i limiti antitrust.

Il discorso vale altrettanto per lo shopping del biscione nella radiofonia. Mentre la legge («il primo caso», si recita) è risultata immediatamente applicativa nel caso Vivendi-Mediaset, ma si sa che entriamo in un girone a parte rispetto ai comuni mortali.

Insomma, c’è materia per rimettere le mani sulla legge 249, in una revisione che tocchi la (contro)riforma della Rai del 2015 e la legge Gasparri del 2004. Immaginari futuri, da istruire in un dibattito pubblico, non solo tra i «soliti noti».

La presentazione ha del buono. Anzi. Contiene un’affermazione felice e strategica.

A pagina 20 si sottolinea che «Internet è un bene comune». Viene la malinconia a pensare a colui che per primo pronunciò simili splendide parole, Stefano Rodotà. Ma complimenti a Cardani, perché si tratta di un argomento conflittuale, visto che gli attuali aggregatori dei dati – da Google, ad Amazon, a Facebook – hanno una brutale visione proprietaria dei saperi.

E pure qui la relazione è virtuosa, evocando il sacrosanto principio della «Net neutrality», contro discriminazioni e divisioni digitali.
Un po’ scontata e debole la parte sulla Rai, che finalmente ha scoperto che va scritto il contratto di servizio.

Interessante, invece, l’aggiornamento sui consumi.

Risulta che, mentre i ricavi del comparto dopo un quadriennio sono cresciuti (+1,5%), la spesa media annua nei servizi di comunicazioni rappresenta la seconda voce dopo la casa. La quota prevalente è destinata alla linea/scheda telefonica e ad Internet. L’Italia, però, rimane nella zona bassa della classifica.

L’Agcom ci scrive (dal manifesto del 19 luglio 2017)

“Il gruppo Gedi rispetta la legge, ha il 19,88% del mercato dei quotidiani 2016”

Abbiamo letto con interesse l’analisi che Vincenzo Vita ha voluto dedicare su il manifesto alla Relazione Annuale presentata l’11 luglio dal Presidente Cardani al Parlamento.

Mi astengo evidentemente dall’entrare nel merito delle valutazioni di carattere generale espresse circa l’attività svolta dall’Autorità, vorrei tuttavia soffermarmi sulla fusione tra Repubblica, Stampa e Secolo XIX su cui Agcom non darebbe conto “delle eventuali iniziative anticoncentrazione intraprese” anche se “le quote di mercato sono note” e “eccedenti i limiti antitrust”.

Non è così. In realtà l’Autorità ha analizzato le situazioni di controllo e collegamento della nuova entità (Gedi), anche a seguito delle operazioni di cessione e uscita dalle attività editoriali di alcuni quotidiani locali del Gruppo Espresso.

Sulla base dei dati 2016, accertati e pubblicati dall’Autorità, il nuovo soggetto non raggiunge le posizioni di dominanza previste dalla normativa che, con l’obiettivo di salvaguardare il pluralismo dell’informazione attraverso la pluralità e l’indipendenza degli editori di giornali, impedisce il superamento di quote del 20% nel mercato nazionale e del 50% nei mercati interregionali.

Nell’ambito del piano di deconsolidamento teso a garantire il rispetto delle soglie di tiratura previste dalla normativa, il Gruppo Editoriale l’Espresso ha comunicato ad Agcom l’avvenuta cessione, con varie modalità, di cinque testate: a seguito di tali dismissioni, Gedi detiene pertanto una quota di mercato riferibile al 2016 pari al 19,88%, dunque rientrante nei limiti anticoncentrativi stabiliti dalla legge.

In ogni caso, Agcom analizza il mercato nazionale e locale dell’editoria quotidiana rilevandone gli effetti sulla concorrenza e sul pluralismo, riservandosi di intervenire in presenza di restrizioni o lesioni.

L’attività dell’Autorità nel settore dell’editoria quotidiana prosegue infatti nell’ambito del monitoraggio del sistema integrato delle comunicazioni (Sic) e dei singoli mercati che lo compongono, avendo la facoltà di intervenire con gli strumenti previsti dall’art. 43, comma 2, del Testo Unico Servizi Media, Audiovisivi e Radiofonici (Tusmar).

David Nebiolo, Responsabile Ufficio Comunicazione Autorità per le garanzie nelle comunicazioni

La replica di Vincenzo Vita

Grazie per l’attenzione. Sì, è vero. Il gruppo Gedi-Itedi non ha più nel suo perimetro cinque testate locali, ma il limite del 20% è pur sempre vicino. Se è vero che la quota percentuale di concentrazione è ora del 19,88%.

Insomma, siamo al fotofinish, come in una volata del Tour de France. In ogni caso, l’Agcom è chiamata a vigilare e far rispettare le norme in modo sostanziale e definitivo.

A questo si alludeva, con un pizzico di ironia, nella rubrica.

Ma stiamo ai testi. Nella rubrica di mercoledì 12 luglio si stigmatizzava il fatto che la presentazione «…non dà conto delle eventuali iniziative anticoncentrazioni intraprese…».

Infatti, di queste ultime si parla nella versione completa –non quella sinterica illustrata dal prof. Cardani- della relazione annuale, laddove si accenna alla cessione di cinque testate locali della Finegil Editoriale per rientrare nel tetto del 20%. L’agognato 19,88%.

Peccato, però, che nella nota n. 74 a pag. 118 della stessa relazione si scriva: «È da ricordare che tali quote… assumono sempre meno valore alla luce dell’evoluzione digitale e possono persino fornire segnali non corretti, non potendo più essere considerate un indicatore di per sé significativo».

Insomma, ci accontentiamo di uno 0,12% persino non suffragato da vere certezze?

Comunque, se l’editoria naviga ai confini, il resto (radio e televisione in primis) sta nella giungla del cosiddetto Sic (sistema integrato delle comunicazioni) della legge Gasparri, dove i vincoli antitrust sono un sogno proibito. E dove l’Agcom potrebbe interagire utilmente con segnalazioni al governo e al parlamento.

Vincenzo Vita