La politica degli annunci genera paura e provvedimenti spot. Le voci su una possibile riduzione degli orari dei supermercati hanno ingrossato le code fuori dai supermercati di tutta la regione, la richiesta dell’esercito per controllare runner e passeggiatori ha dirottato 114 militari dell’operazione “Strade Sicure” nelle operazioni di controllo Covid. Nulla sostanzialmente. Il presidente lombardo Fontana in imbarazzo ne ha rivendicati mille in più e ha continuato anche ieri nella politica degli annunci e delle richieste al Governo, mentre nelle stesse ore altre regioni prendevano provvedimenti più restrittivi.

Perché Fontana non lo fa? Se lo chiedono anche le opposizioni in consiglio regionale. È un rimpallo di responsabilità con il Governo diventato insostenibile. Cosa aspettano Governo e Regione Lombardia a chiudere tutto, per davvero? Quanti altri morti? Ogni giorno, ha calcolato la Camera del Lavoro di Milano insieme a Radio Popolare, si muovono per lavoro su Milano 300 mila persone che non fanno lavori indispensabili. È facile intuire chi siano le persone che affollano la metropolitana tra le 6.30 e le 9 e tra le 18 e le 19: persone che lavorano. Lo ha dovuto ammettere anche il vicepresidente della giunta lombarda Fabrizio Sala che sta monitorando gli spostamenti dei lombardi attraverso le celle telefoniche. «Guardando le fasce orarie abbiamo dei picchi importanti alle 18 e alle 19 e dalle 12 alle 13» ha detto, «La gente in questi orari si sposta di più e lo fa per motivi lavorativi vista l’apertura delle attività produttive e professionali». Ebbene sì. Salvo poi ripassare nuovamente la palla al Governo: «Noi abbiamo fornito a Roma tutti i dati e il presidente Fontana ha parlato direttamente con Conte. Attendiamo si esprima il Governo accogliendo le nostre richieste».

Fino ad oggi però la Regione non ha mai chiesto al Governo la chiusura degli uffici pubblici, delle attività professionali, delle fabbriche e delle aziende. Anzi, nella lettera inviata l’8 marzo, la Regione dava mano libera agli industriali per decidere se chiudere o no. Ci sono volute le proteste operaie per costringere centinaia di fabbriche ad avviare le procedure per la cassa integrazione. Prima nel bresciano, poi nella bergamasca, dove colpevolmente a inizio marzo Confindustria si era opposta all’istituzione della zona rossa nei comuni più colpiti. I risultati di quella scelta li stiamo vedendo ora con migliaia di contagiati e centinaia di morti. A Monza e Brianza le proteste degli operai e dei sindacati hanno portato alla quasi chiusura totale delle fabbriche della provincia. «In soli due giorni abbiamo sottoscritto 200 accordi di cassa integrazione che consentiranno ad oltre 5mila lavoratrici e lavoratori metalmeccanici della Brianza di stare a casa nelle prossime due settimane» spiega Pietro Occhiuto, segretario generale della Fiom Cgil Brianza. «L’avevamo detto sin da subito che di fronte a questa emergenza ci si doveva fermare. Siamo arrivati in ritardo ma siamo arrivati, questo è importante». Altrove però si continua a lavorare, come all’aeroporto di Linate, che è chiuso ma ogni giorno arrivano dalla bergamasca un centinaio di operai impegnati in lavori di ristrutturazione dei negozi, lavori senza dubbio non indispensabili.

Ieri era un mese esatto dalla notizia del primo contagiato a Codogno. «Forse ci abbiamo messo un po’ a capire con chi avevamo a che fare» ha ammesso l’assessore alla Sanità Giulio Gallera. Negli ospedali delle province di Brescia, Bergamo, Cremona, Pavia la situazione è oltre la soglia critica. Oltre ai numeri ufficiali, parlando con chi vive in quei territori si scopre che ci sono persone a casa con la febbre che non sanno cosa fare e a chi rivolgersi. Famiglie con più persone nella stessa abitazione con la febbre, appese al numero verde regionale che dice loro di far venire il medico di base a casa. Ma il medico sempre più frequentemente non arriva, perché non ha i dispositivi di protezione individuali. I medici di base, gli specialisti, gli infermieri, gli operatori del soccorso stanno pagando un tributo enorme in questa emergenza.

Le persone restano quindi a casa, aspettano, nella maggior parte dei casi in una quindicina di giorni guariscono. Ma resta quel 20 per cento che peggiora e ha bisogno dell’ospedale. Non sempre ci arriva. Quei territori raccontano anche di persone che stanno morendo nelle proprie abitazioni e che non rientrano nei conteggi ufficiali dei morti con il Covid.