Alla fine dello scorso novembre durante l’unica, sino a oggi, tregua che fermò per qualche giorno l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, un convoglio di autoveicoli scortato delle Nazioni unite si mise in viaggio dal nord verso il sud di Gaza. A bordo delle auto c’era una tonnellata di banconote da 200 shekel (50 euro) destinata alle filiali delle banche nel sud della Striscia, in quei giorni non ancora invaso dai carri armati israeliani, e ad alleviare la carenza di denaro per circa due milioni di palestinesi. 900mila banconote precise, per un totale di 180 milioni di shekel (circa 45 milioni di euro) che consentirono a due filiali della Banca di Palestina di versare – attraverso sei sportelli bancomat ancora operativi – gli stipendi a migliaia di impiegati pubblici. Altre migliaia di persone ebbero modo di ritirare i risparmi.

Da allora sono passati mesi, la distruzione di Gaza è proseguita senza soste e l’accesso della popolazione alle banche – le poche ancora in piedi – è minimo, quasi nullo. Stipendi e risparmi sono un ricordo del passato. A Gaza dove trovare cibo resta una impresa nonostante l’aumento degli aiuti umanitari e i prezzi sono cresciuti anche di dieci volte rispetto a sette mesi fa, la carenza di banconote e la conseguente impossibilità di acquistare generi di prima necessità aggrava le condizioni di vita generali. «Le banche (arabe e palestinesi) potrebbero provare a immettere liquidità, ma esitano a trasferire denaro dalla Cisgiordania a Gaza perché temono le ritorsioni di Israele che vede in quel passaggio di fondi un aiuto ad Hamas. In realtà il denaro serve alla popolazione per sopravvivere», ci dice Amir H, funzionario in una filiale di Ramallah di un noto istituto di credito arabo.

All’inizio della guerra, molti abitanti di Gaza si erano precipitati a depositare contanti nelle banche per tenerli al sicuro o per accedervi all’estero se espulsi dalla Striscia come si è temuto soprattutto nei primi due mesi dell’offensiva israeliana. A dicembre, spiega Firas Milhem, presidente dell’Autorità monetaria palestinese, «dopo la fine del cessate il fuoco e l’offensiva di Israele contro la città Khan Younis, è diventato praticamente impossibile trasferire denaro da una banca all’altra».

Molte delle 56 filiali bancarie e dei 91 bancomat di Gaza, aggiunge, sono stati distrutti o messi fuori servizio dagli attacchi israeliani alle città palestinesi. Da fine novembre non è stato consegnato altro contante alle banche di Gaza. «Aspettiamo il cessate il fuoco per rifornire le nostre filiali» dice Milhem. Secondo notizie di stampa e dati semi-ufficiali, circa 600 milioni di dollari in contanti sono usciti dalla Striscia negli ultimi mesi.

Migliaia di famiglie hanno ritirato decine di milioni per lasciare Gaza e pagare il viaggio da Rafah fino al Cairo alla società egiziana Hala Consulting and Tourism Services – di proprietà del magnate Ibrahim al-Organi e di cui sarebbe azionista anche Mahmoud El Sisi, figlio del presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi – che praticando una estorsione a tutti gli effetti, incassa almeno 5.000 dollari per ogni adulto palestinese e 2.500 per i minori sotto i 16 anni. Solo negli ultimi tre mesi – rivela il portale Middle East Eye – la Hala ha preso ai disperati di Gaza almeno 118 milioni di dollari. «Altri milioni di dollari in contanti sono stati portati fuori dalla Striscia dalle famiglie che sono riuscite ad ottenere il permesso per andare in Egitto. Temevano di perdere tutto, e a tante di loro è effettivamente accaduto, così hanno portato tutto ciò che potevano con loro, spinte dall’idea che forse non riusciranno mai più a tornare a Gaza», ci dice un giornalista di Gaza city che ha chiesto di rimanere anonimo.

Chi è rimasto a Gaza, quasi tutta la popolazione, fa i conti con la carenza di liquidità e l’aumento dei prezzi causato principalmente dalla mancanza di cibo e di altre merci, ma ora anche dal costo elevato dei trasporti. Le politiche israeliane contribuiscono in modo decisivo a questo aspetto del carovita. Da quando il governo di Benyamin Netanyahu ha dichiarato guerra all’Unrwa – che accusa di essere collusa con Hamas – impedendo il più possibile all’agenzia dell’Onu per i profughi di distribuire gli aiuti soprattutto nel nord di Gaza, i convogli privati organizzati da imprenditori e commercianti palestinesi sono diventati sempre più frequenti.

Un coinvolgimento che ha finito per aumentare ulteriormente i prezzi vanificando la relativa maggiore disponibilità di cibo che si registra nelle ultime due-tre settimane dopo l’apertura di due valichi (Erez e Zikim) tra Gaza e Israele. Le poche compagnie di trasporto palestinesi che hanno ottenuto da Israele il privilegio di portare le merci di commercianti e imprenditori privati dal lato egiziano al sud della Striscia di Gaza e ora anche dal nord, di fatto operano in una situazione di monopolio – si sono spartite il tipo di merci da trasportare – e possono fissare a livelli astronomici, impensabili fino allo scorso ottobre, il costo di ogni camion che sarà impiegato nei trasporti.

«Le imprese di proprietà di famiglie importanti come Khazandar, Al-Khudari e altre ancora si coordinano con le autorità di occupazione per trasportare le merci, spesso al posto dei convogli dell’Unrwa e di altre agenzie dell’Onu» afferma Saleh R., operatore di una Ong umanitaria palestinese. «Queste società – prosegue – chiedono ingenti somme di denaro a commercianti e importatori. Tra 50 e 100mila Shekel (tra 12mila e 25mila euro) per ogni convoglio che entra dall’Egitto e tra 5 e 7mila shekel (tra 1.200 e 3.800 euro) per ogni camion che sarà inviato in una determinata area di Gaza».

Con costi di trasporto e distribuzione così alti, il prezzo di ogni singolo prodotto, dal sacco di farina ai legumi in scatola, finisce per essere più alto di 5-6, anche 10 volte, di quello precedente alla guerra. Un carovita che la maggior parte delle famiglie travolte dalla guerra e dalla crisi umanitaria non può sostenere. La distribuzione di scorte alimentari gratuite è essenziale per la sopravvivenza di centinaia di migliaia di sfollati e residenti nelle varie città.