Non siamo l’unica specie vivente che assume farmaci volontariamente. Lo fanno anche diversi primati non umani. Se ne accorse per prima Jane Goodall, l’etologa inglese che a dispetto dei suoi novant’anni gira il mondo – era a Roma sul palco del primo maggio – per perorare la causa ambientalista. Quando negli anni ‘60 Goodall studiava gli scimpanzé della Tanzania, notò foglie intere di piante medicinali nelle feci degli animali: le scimmie le ingoiavano senza masticarle per sfruttarne l’effetto anti-parassitario e vermicida nell’intestino.

In anni più recenti, molte osservazioni hanno suggerito che altri primati possiedano un’industria farmaceutica. Nel 2022, per esempio, gli etologi hanno scoperto che gli scimpanzé del Gabon usano spalmarsi le ferite con una poltiglia fatta di insetti schiacciati. Gli autori dello studio non sono riusciti a individuare quale insetto abbia effetti curativi: forse gli scimpanzé sanno qualcosa che nemmeno Big Pharma ha ancora scoperto? In altri casi, le piante usate dagli animali sono le stesse che noi umani impieghiamo nella medicina tradizionale. I migliori farmacisti della giungla sembrano essere gli oranghi. Se ferito, un orango si mette in cerca dello zenzero, forse per le stesse proprietà antiinfiammatorie, antivirali e antibatteriche che lo fanno apprezzare anche a noi.

Nella provincia di Kalimantan (Borneo), oranghi e tribù indigene condividono la passione per la Dracaena cantleyi, le cui foglie vanno masticate e spalmate sugli arti per il loro effetto antidolorifico e antiinfiammatorio. Gli oranghi sembrano usarlo a scopo preventivo. Nessuno però aveva dimostrato la perizia di Rakus, un orango maschio di una trentina d’anni cresciuto nel parco nazionale di Gunung Leuser, nel nord di Sumatra (Indonesia). Un’equipe di ricerca composta da membri del Max-Planck Institute tedesco e dell’università nazionale di Jakarta (Indonesia) lo ha seguito a lungo e ha osservato come Rakus si sia curato un brutto taglio in faccia rimediato in una rissa, un evento piuttosto frequente per un orango maschio che si aggira solitario tra le liane.

Rakus ha usato proprio le foglie di una liana denominata «akar kuning», o Fibraurea tinctoria, ben nota anche agli umani come terapia per diabete e malaria. L’orango ha masticato per qualche minuto le foglie per estrarne il succo, che poi si è spalmato con attenzione sulla ferita. Infine, ha coperto il taglio con la poltiglia masticata per proteggerlo dagli insetti. Dopo cinque giorni, la ferita era del tutto scomparsa dal volto di Rakus.

I ricercatori che hanno pubblicato lo studio sulla rivista Scientific Reports hanno allegato le foto «prima» e «dopo» la terapia, come si fa coi cosmetici: decisamente convincenti.

Sarebbe la prima volta in cui si osserva un primate non umano curarsi attivamente un malanno usando una sostanza dalle proprietà curative note. I ricercatori fanno anche notare che si tratta dell’unico caso osservato finora, nonostante 21 anni e 28 mila ore trascorse a studiare gli oranghi di Sumatra nel loro habitat. Ma non sorprende, perché si tratta di animali assai elusivi su cui ancora molto c’è da scoprire.

Gli scienziati vogliono ora scoprire l’origine evoluzionistica di questo peculiare tratto comune alle grandi scimmie. Anche tra gli umani, circa quattromila anni fa, erano in voga cure simili a quelle impiegate da Rakus. Rispetto ad allora, la medicina odierna degli oranghi è però meno intrisa di pensiero magico. Appare anche più equa, perché i brevetti nella giungla non sono riconosciuti. Resta da capire cosa pensino dei vaccini. Ma c’è da scommettere che anche su questo un orango abbia un’opinione più equilibrata della nostra.