Mark Zuckerberg sta facendo di tutto per fronteggiare le critiche che stanno incrinando la credibilità di Facebook da due anni a questa parte, da quando è esploso lo scandalo di Cambridge Analytica. L’ultima iniziativa del social network per respingere le accuse di essere un nemico della democrazia è stata la delega a organizzazioni indipendenti per monitorare il social network e individuare le fonti di fake news e di account che diffondono punti di vista razzisti, xenofobi, antisemiti. Così è capitato che il nodo italiano di Facebook si affidasse all’organizzazione non governativa Aavaz, la quale ha stilato un report dove si attesta il fatto che un discreto numero – ma di seguitissimi – account riconducibili al movimento 5Stelle e alla Lega diffondevano notizie false, denigratorie verso personaggi noti (Roberto Saviano, ad esempio), antisemite. Immediata la reazione di Facebook: gli account sono stati chiusi.

Zuckerberg aveva annunciato che l’impegno contro le fake news non era di facciata. Così come non è stata di facciata la scelta di unificare le regole sulla privacy di Facebook, Instagram e WhatsApp per meglio garantire il diritto alla riservatezza. Una «unificazione» più che sospetta, dato che vengono scelte le regole di Facebook, più aziendaliste e meno garantiste di quelle di WhatsApp sull’anonimato e sul diritto all’oblio di Instagram. L’attivismo di Mark Zuckerberg non ha tuttavia l’effetto sperato.
L’ultima bordata contro la società di Menlo Park è arrivata da Chris Hughes, cofondatore assieme allo stesso Zuckerberg, Eduardo Saverin e Dustin Moskovitz del social network. In un lungo editoriale apparso sul New York Times, Hughes non ha usato mezzi termini per indicare in Facebook un pericolo per la democrazia per la sua capacità di condizionare la vita politica e per la posizione di monopolio che ormai ha tra i social network.
L’editoriale si chiude con la richiesta alle autorità americane di porre fine all’attività oligopolistica di Facebook.

Il social network, con i suoi due miliardi di account e con i dati raccolti da Instagram e Whatsapp, è una potente portaerei nel raccogliere e fare business sui dati personali, secondo solo a Google (una classifica che non contempla i siti cinesi sui quali vige il segreto più assoluto, garantito dal governo centrale).
Hughes, dopo l’uscita da Facebook, ha inanellato insuccessi imprenditoriali, ma è tutt’ora ritenuto una figura autorevole della network culture americana. Che abbia scelto il New York Time, una testata che in questi anni non è mai stata tenera con Mark Zuckerberg, segnala che per Facebook il calo dei consensi ha raggiunto il livello di guardia. Il nodo da sciogliere riguarda infatti il futuro del capitalismo delle piattaforme o della sorveglianza, in difficoltà per le crescenti opposizioni che incontra laddove si appropria dei dati delle attività relazionali in Rete.

Come scrive l’economista Soshana Zuboff, autrice dell’importante saggio The Age of Surveillance Capitalism (il libro uscirà in Italia, per la Luiss University Press, nel prossimo autunno) in un articolo sul Financial Times, l’affaire Facebook segnala la crescente critica verso le imprese dei Big Data, accusate di fare profitti vendendo agli inserzionisti pubblicitari l’esperienza umana in Rete. Il rispetto della privacy e la richiesta di rendere pubblici i software che «predicono» i comportamenti futuri sono i temi che stanno mettendo in discussione il capitalismo digitale. Continuare con la logica dell’«abbiate fiducia in me», come fa Facebook, significa imboccare il vicolo cieco del sicuro insuccesso.

Mark Zuckerberg ne è in qualche misura consapevole, ma finora non riesce a invertire la tendenza. Segno delle sue difficoltà e del potere perduto presso l’opinione pubblica è il cambiamento impresso alla strategia di Facebook durante il meeting – l’eff eight, F8 – degli sviluppatori di software e app che si è svolto a San José agli inizi di maggio. In quella occasione, Zuckerberg ha gettato a mare il progetto di costruzione di una comunità globale mediata dal social network per una più prosaica sommatoria di comunità «private» fondate su affinità elettive. Echo chambers nelle quali si può entrare solo se si esprimono gli stessi punti di vista di chi ha fondato il gruppo di discussione, che ha il potere di rifiutare o cancellare la partecipazione di chi esprime punti di vista divergenti dalla policy fondativa. Come a dire: noi mettiamo la piattaforma per appropriarci dei vostri dati, ma le regole sulla privacy ve le gestite voi.

Un cambio di rotta radicale di chi puntava, fino a due anni fa, a far diventare il social network la piattaforma digitale di una comunità globale senza confini e frontiere. Chi si iscriveva, assegnava a Facebook il ruolo di controllore, arbitro e gestore, accettando tuttavia il fatto che la società di Menlo Park diventasse proprietaria dei suoi dati personali.

Non furono pochi i commentatori americani che videro nella proposta di Zuckeberg le premesse di una sua candidatura alla presidenziali, in alternativa a Donald Trump. Zuckerberg ha sempre smentito con sdegno quelle voci, ma a due anni di distanza, di quel progetto simbolo dell’Eden habermasiano della libera comunicazione rimane ben poco. Meglio lo spezzatino di tante comunità private che la pensano alla stessa maniera e che hanno un meccanismo di autoregolamentazione. L’importante è che il ciclo dei Big Data non si interrompa.
Zuckerberg vorrebbe che il suo social network rimanesse tra i top five della Rete. Per molti suoi detrattori, invece, lo smembramento della società di Menlo Park è il prezzo da pagare per non mettere in discussione il capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza.