Domenica 1 ottobre, il giorno in cui Mariano Rajoy ha perso per sempre la Catalogna. Il presidente del governo spagnolo ha regalato su un vassoio d’argento la vittoria definitiva di immagine all’indipendentismo catalano, e ha caricato di ragioni tutti quelli che per un motivo o per l’altro stavano dubitando se partecipare a quello che, a buon rigore, non può considerarsi un vero e proprio referendum.

Le immagini della giornata hanno fatto il giro del mondo: code chilometriche dalle 5 di mattina fino a notte inoltrata di persone che volevano votare e che volevano difendere il proprio voto, evitando che venisse sequestrato dalla polizia spagnola; le manganellate della polizia su votanti inermi, donne, anziani; gli 844 feriti (secondo la Generalitat), fra cui una persona che rischia di perdere un occhio per le pallottole di gomma usate dalla polizia spagnola (ma che sono fuori legge in Catalogna).

Durante tutta la giornata, si sono susseguite immagini da brivido da alcuni dei seggi, in cui i Mossos, la polizia catalana, hanno evitato di intervenire. Senza pietà sono invece intervenuti i famosi 10mila agenti di Policia nacional e Guardia Civil che il governo Rajoy aveva riunito a Barcellona da tutta la Spagna, intervenuti ufficialmente per “aiutare” i Mossos.

Non ci sono state solo botte da orbi: passeggiando per la città di Barcellona, era facile individuare i seggi elettorali, circondati da folle oceaniche che nella maggior parte dei casi aspettavano pazientemente di entrare a votare. In mattinata, la Generalitat, per rispondere alla chiusura di alcuni seggi da parte della polizia durante il fine settimana, aveva informato che si poteva votare in qualsiasi seggio perché aveva abilitato una applicazione informatica per consentire di registrarsi in qualsiasi sede elettorale.

Ma il governo centrale aveva subito sabotato il sistema, per cui le operazioni di voto erano rallentate. Nonostante tutto, le enormi file non hanno scoraggiato un gran numero di votanti. Alcuni, come denunciato dalla tv La Sexta, hanno detto di aver potuto votare più di una volta. Difficile pensare che siano stati in molti ad aver affrontato più di una fila come queste.

La stessa sindaca di Barcellona Ada Colau è rimasta in fila lungo tempo per votare, e si è trattenuta nella scuola di suo figlio per “difenderla” dagli attacchi della polizia.

vigilia del referendum in catalogna foto reuters

 

Non era un timore infondato: le immagini crudissime, oltre ai danni alle persone, mostrano i notevoli danni al materiale scolastico provocato dalla violenza della polizia. Colau ha denunciato un “presidente del governo codardo”, che ha fatto degenerare la situazione fino a questo punto senza offrire dialogo. È stata la prima leader politica che in giornata ha chiesto le sue dimissioni. Nel pomeriggio, davanti ai numeri crescenti dei feriti e alle immagini preoccupanti della violenza di stato, Colau è di nuovo intervenuta per chiedere “come sindaca di Barcellona che il governo fermi le cariche della polizia”.

L’eccezionalità della giornata l’ha voluta sottolineare anche il Barça che ha chiesto di giocare la partita della Liga prevista ieri a porte chiuse: il Camp Nou vuoto in un giorno come quello di ieri faceva una certa impressione.

Da Unidos Podemos si sono susseguiti tutto il giorno messaggi sulle reti social per denunciare l’operato del governo: messaggi che sono mancati da parte del Partito socialista. In una conferenza stampa data quasi all’ora di chiusura delle urne, il leader di Podemos Pablo Iglesias ha chiesto al Psoe di smettere di appoggiare la strategia repressiva del Pp: “Noi democratici dobbiamo unirci per mandare il Pp e Ciudadanos all’opposizione”. Ancora una volta ha ribadito che l’unica soluzione alla situazione è un referendum pattuito.  

Mariano Rajoy invece, che è intervenuto dopo la chiusura dei seggi, ha trasmesso un’immagine di cinismo senza precedenti: neppure una parola sui feriti, ha parlato di una “democrazia amabile e tollerante”, benché “ferma e determinata” che difende “uno stato di diritto con tutte le garanzie”.

Ha ribadito che “non c’è stato un referendum”, ma solo una “sceneggiata”. Le immagini della giornata che lo hanno impressionato, sono quelle “dell’indottrinamento dei bimbi” e della “persecuzione di giudici e giornalisti”.

Naturalmente, ha detto, “abbiamo fatto quello che dovevamo fare: siamo il governo spagnolo. Abbiamo dimostrato che il nostro stato democratico ha i mezzi per difendersi da un attacco alla democrazia”. E ha sottolineato che vuole continuare ad avere l’appoggio degli altri partiti, cioè Psoe e Ciudadanos: oggi chiederà di intervenire al Congresso proprio per questo.

Il leader socialista Pedro Sánchez, che ha la chiave della sopravvivenza politica di Rajoy, pur parlando di “giorno triste per la democrazia e per l’immagine esterna di questo paese”, dà la colpa sia a Rajoy che a Puigdemont per quanto accaduto. E dopo aver ammesso che “le immagini di oggi non mi fanno sentire a mio agio”, ha promesso che il Psoe non passerà sopra alle responsabilità di chi ha dato quegli ordini.

Ma smentendo le aspettative, non ha fatto nessun passo verso una nuova mozione di sfiducia a Rajoy. Anzi, ha detto che ora è il capo del Pp a dover dialogare e che il Psoe appoggerà lo stato diritto, sottolineando che proprio un anno fa si dimise come deputato per non aver appoggiato il governo Rajoy in polemica con il suo stesso partito. 

Né lui, né Rajoy, al contrario di Pablo Iglesias, hanno accettato domande dei giornalisti, come la gravità della situazione avrebbe richiesto. Ciudadanos ha invece chiesto elezioni sia in Catalogna che in Spagna.  

 

El Govern en ple durant la declaració institucional de Carles Puigdemont : GENERALITAT

Diametralmente opposta la dichiarazione di Carles Puigdemont.

Il presidente della Catalogna, ha parlato alle 22.30 di ieri: “Siamo riusciti a celebrare il referendum di autodeterminazione che volevamo”, ha detto, definendo “la violenza della polizia spagnola” come “ingiustificata, abusiva e grave”.

“Lo stato spagnolo ha scritto oggi una pagina vergognosa della sua relazione con la Catalogna”, ha aggiunto, chiedendo alla Ue di intervenire di fronte a “uno stato che si comporta in modo autoritario”.

Oggi, ha continuato, “la Catalogna ha guadagnato molti referendum: il diritto di essere ascoltati e riconosciuti, e il diritto a decidere del nostro futuro”. E, davanti a tutti i ministri del suo governo schierati in fila, ha concluso: “E il diritto a essere fuori da uno stato incapace di proporre una sola ragione convincente oltre alla forza bruta”.

Ha promesso che trasferirà al Parlament di Barcellona il risultato della giornata elettorale: cioè ha aperto la strada alla dichiarazione di indipendenza.

Ma alle 23 di sera ancora non c’erano numeri definitivi sulla partecipazione, che sono poi quelli chiave, anche se la Generalitat parla di 3 milioni di “mobilitati”: se fossero davvero tanti i voti,  sarebbero di più del referendum di 3 anni fa. Non è neppure chiara l’entità della vittoria dei Sì sui No. I votanti di questa ultima opzione, che gli indipendentisti hanno cercato di convincere in tutti i modi a partecipare per dare credibilità al referendum (ma Rajoy è stato molto più bravo), sono stati ringraziati pubblicamente in piazza Catalogna a Barcellona da Jordi Sánchez, dell’Associazione nazionale catalana (Anc).

Sia Anc che Òmnium, le due principali associazioni indipendentiste, hanno chiamato allo sciopero generale per martedì.

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Poco dopo mezzanotte e mezza, la Generalitat ha diffuso i risultati delle 2.262.424 schede non requisite dalla polizia (gli aventi diritto al voto in Catalogna sono 5,3 milioni).

I sì all’indipendenza sono stati 2.020.144, pari al 90%.

I no 176.566 (7,8%).

45.585 schede bianche e 20.129 nulle.