Nel mio vissuto la fine della guerra e la consacrazione della vittoria non coincidono esattamente con il 25 aprile. Quel giorno del 1945 io ero, con la divisione Cremona, in Veneto, dove stavamo liberando paesi e villaggi, con i tedeschi in fuga. In uno di quei giorni, nel corso di una battaglia fu ucciso il capitano più amato da tutto il nostro plotone. I tedeschi, ritirandosi, cercavano di distruggere il più possibile e noi cercavamo di salvare le infrastrutture (ponti, ferrovie, strade) e i beni (scuole, chiese, opere architettoniche, opere d’arte). Fu prezioso l’aiuto dei partigiani che, dov’erano attivi, svolsero, oltre alla guerriglia anche la funzione di limitazione dei danni cercando di incalzare i tedeschi per non dar loro il tempo di distruggere tutto o di fare delle stragi. Se non erro, a Venezia siamo arrivati il 28-29 aprile.

La fine del mese di aprile del 1945 fu per me un insieme di giorni meravigliosi in cui entravamo nei paesi e nelle città, e la gente ci applaudiva e ci riconosceva come liberatori; ogni volta era una festa incredibile. Ricordo quei giorni tra i più belli che abbia vissuto perché c’era un grande entusiasmo. La gente considerava il nostro arrivo come la fine dell’incubo della guerra, dell’occupazione dei tedeschi, dell’arroganza dei fascisti della repubblica sociale. Ovviamente, in questi paesi c’erano anche i fascisti, ma non in piazza. La maggior parte della popolazione ci gettava fiori, le donne ci abbracciavano e cercavano di aiutarci in tutti i modi. Ricordo un villaggio in cui, convinti che nell’esercito americano si mangiasse tutto in scatola, ci portarono farina per fare la pasta e i ravioli. Erano felici e, se potevano, ci fermavano per dividere quel poco che avevano. Noi ricambiavamo con sigarette americane o inglesi che erano ancora una merce molto rara.

Presto, com’è naturale, non ci saranno più i partigiani e, in genere, i combattenti per la libertà. Ma la cosa è irrilevante per il carattere della festa. Per molti anni l’Italia è stata soprattutto una Repubblica del dolore e del ricordo dei caduti, mentre sempre più la Repubblica deve fondarsi sulla memoria storica. Memoria intesa non solo come ricordo doloroso ma come conoscenza, di cui sono testimonianza i monumenti, le lapidi, le feste nazionali. Ecco, io immagino che, partigiani o non partigiani, il 25 aprile deve mantenere questa fisionomia.

Noi dobbiamo la nostra vita democratica alla Resistenza. La nostra Costituzione è nata dalla Resistenza. Il 25 aprile, festa della Liberazione, ha tutti questi significati dentro di sé e deve rimanere tale. Non sarebbe esatto dire che chi ha combattuto per la libertà combatteva solo per questo: nei partigiani era chiaro che l’obiettivo era duplice e riguardava, insieme, libertà e democrazia. Ben pochi giovani sarebbero stati disposti a prendere le armi e cacciare i fascisti solo per tornare allo Statuto Albertino (quello in cui il sovrano concedeva, di sua iniziativa, i diritti al popolo). Ogni tanto, nelle scuole, mi chiedono cosa facessimo noi partigiani quando non si combatteva. È una domanda ingenua che presuppone un’immagine della Resistenza come di una guerra, mentre essa fu, più esattamente, una guerriglia. C’erano giorni in cui i territori erano pieni di tedeschi o di fascisti e non era il caso di uscire allo scoperto, altri in cui si preparava o si effettuava un agguato o un’azione particolare. Nei lunghi periodi di inattività eravamo impegnati anche in grandi discussioni, in cui si parlava del futuro, di come lo si immaginava. L’idea del futuro, anche per istinto, non era certo il ritorno a prima del fascismo ma l’avvento di qualche cosa di completamente diverso che chiamavamo genericamente democrazia, cioè un Paese senza dittatura, senza imposizioni, senza violenza.

La storia, se è vera storia, è una sola anche quando, inizialmente, non è condivisa. In ogni Paese ci sono avvenimenti fondamentali che nel tempo, per riconoscimento legislativo o per altre ragioni, diventano patrimonio e memoria comuni. Il 25 aprile, la liberazione dal fascismo, è per noi uno di questi avvenimenti.

Allora non ha nessun senso dire che da un certo momento in là deve esserci una pacificazione. Ma quale pacificazione? C’è stato chi ha combattuto per mantenere una feroce dittatura e chi, invece, ha combattuto per la libertà e la democrazia. Una differenza fondamentale che non si può colmare con una presunta «pacificazione», dal momento che quella lotta si è conclusa con la vittoria di una parte, quella che amava la libertà. Non conserviamo rancori, ma non siamo disposti a violentare la realtà storica e a restituire spazio alle idee che abbiamo combattuto. È un’assurdità pensare che sia venuta meno la differenza tra partigiani e fascisti della repubblica di Salò. La storia ci dice che c’è stata la Resistenza e che essa, alla fine, come ho detto, ha vinto. Questo riconosce la legge, dichiarando il 25 aprile festa nazionale, festa della Liberazione. Punto e basta. Ciò non significa, in alcun modo, coltivare odio verso i nemici di ieri. Io non ho mai nutrito, neppure durante la guerra, sentimenti di odio nel senso letterale del termine. A maggior ragione non credo che possa esserci odio oggi. Accade che ci sia chi rifiuta valutazioni che appartengono ormai alla storia comune del nostro Paese. Secondo me sbaglia. Tutto qui.

Il tempo non deve uccidere la memoria e la storia. Invece c’è sempre il rischio dell’oblio, di dimenticare la storia, cancellando ciò che è avvenuto, ciò che si è acquisito. Questo è il peggio che può fare un Paese che si vuole considerare civile. Ricordare è fondamentale, non per mantenere una guerra che non c’è più, ma per dire qual è la verità storica. Una verità di cui occorre prendere atto tutti e di cui ha preso atto lo Stato italiano dandosi una Costituzione antifascista. Ci sono altre giornate che uniscono nel ricordo, ma sempre sulla base della verità storica.