Marxista eterodosso, storico, “attivista e a volte molte altre cose”, come dice sul suo profilo di Twitter, Xavier Domènech, 42 anni e padre di un bimbo di 3 anni e mezzo, è il capolista di En comú podem al Congresso dei deputati, l’alleanza catalana di tutte le forze di sinistra, fra cui Podemos, Izquierda unida, i rossoverdi catalani di Icv e gli ecologisti di Equo. L’alleanza è arrivata prima in Catalogna sia nelle elezioni del 20 dicembre, quando Podemos e Izquierda Unida andavano da soli a livello nazionale, sia in quelle del 26 giugno. Proposto da Unidos Podemos come candidato alternativo alla popolare Anna Pastor come presidente del Congresso nella vana speranza di attrarre i voti nazionalisti e socialisti, ci accoglie affabile in un appartamento molto spartano vicino all’Hospital Clínic di Barcellona, invaso dai libri e dai giocattoli.

A giugno avete perso 80mila voti in Catalogna, ma siete rimasti il primo partito.
Rispetto a Unidos Podemos, già a dicembre noi siamo riusciti ad attrarre un elettorato più trasversale, urbano e rurale, mentre soprattutto Podemos è forte in città. Secondo, la crisi del sistema politico è in atto in Catalogna da più tempo. E poi siamo riusciti a coniugare meglio degli altri il discorso sociale col discorso nazionale. Abbiamo perso molti voti, ma il 20 dicembre ha fatto irruzione un terzo polo politico che prima non esisteva, un risultato straordinario! A giugno non è avvenuta quell’accelerazione storica che sarebbe stata prendere il potere, l’”assalto al cielo” che diceva Iglesias. Ma non mi consta nessun caso a livello europeo in cui si sia prodotta una trasformazione politica di questo livello.

Però il milione di voti che manca fa male.
Molto. I dati più accurati che abbiamo in Catalogna ci dicono che sono persone che erano uscite a dicembre dall’astensione e che ci sono tornate. Persone trascinate dalla prima campagna contro il bipartitismo, indignata, epica, dalle periferie del paese, e che non sono state convinte dalla seconda campagna, tutta centrata sull’alternativa di governo. In generale, si è giudicata più la nostra alternativa, attaccata da tutti, che il governo esistente. E poi la nostra grandissima debolezza è stata che il secondo attore, i socialisti, non ci stava. Quindi la credibilità della proposta alternativa era scarsa.

Cosa avete sbagliato?
Non so se potevamo fare altrimenti, ma uno dei problemi è che a parte nei casi come quello catalano in cui la marca elettorale superava in forza le sue componenti partitiche, Unidos Podemos è stata percepita solo come una coalizione tattica. Poi siamo stati logorati dai sei mesi di negoziati. Infine la novità per noi il 26 giugno era l’alleanza fra Podemos e IU, e questa novità ha finito per offuscare le altre novità nelle nostre proposte.

Dopo l’incarico del re, qual è lo scenario?
È chiaro che Rajoy non vuole presentarsi all’investitura e perderla. Perché vorrebbe dire un governo del Pp senza di lui. Quindi gioca con l’ambiguità. Ha accettato l’incarico per le pressioni dei poteri forti dello stato per far partire il conto alla rovescia (se 60 giorni dopo il primo voto di investitura non c’è governo, si va alle urne, ndr). Disattiva la possibilità che ci sia un candidato alternativo, e giocherà con la paura di terze elezioni.

Stavolta il socialista Sánchez non si è fatto avanti.
Credo che lui vorrebbe presentarsi. Ma non so se per un progetto politico alternativo o per sopravvivenza. Nel suo partito gli vogliono fare le scarpe da tempo e l’unica sua speranza di sopravvivere è di fare il presidente o riuscire a non doversi astenere perché governi il Pp. Ma francamente, la situazione gli è molto difficile.

Una situazione di stallo.
Che indica l’esaurimento del sistema politico spagnolo. È chiarissimo. Sia se finisce con un debole governo del Pp o con terze elezioni. Se si forma il governo e si torna a votare fra un paio d’anni saranno elezioni costituenti perché un governo Rajoy non sarà capace di affrontare le grandi sfide. Se si va a terze elezioni, invece, il Pp calcola che si mangeranno Ciudadanos (solo il 25% del loro elettorato è fidelizzato), e che ci sarà una grande astensione da sinistra, e penso abbiano ragione. Ma se ci fossero, sarebbe la dimostrazione ulteriore del logoramento del sistema politico, incapace di affrontare le tre grandi crisi: quella plurinazionale – in Catalogna è molto evidente –, la legittimità del sistema democratico agli occhi della popolazione, e la disuguaglianza sociale crescente.

Mi tolga una curiosità. Di che si parla con il re?
Questo re ha già fatto 4 giri di consultazioni in sei mesi, suo padre 10 in tutto il suo regno. Già questo dice molto sulla crisi del sistema politico. A dicembre non ero neppure cosciente che avrei dovuto parlarci prima o poi. Vengo da una tradizione repubblicana e mai mi sarei immaginato di sedermi a parlare con un monarca. Il tema dell’investitura ha occupato 10-15 minuti, e lui ha spiegato come vede la situazione. Poi abbiamo parlato della crisi del sistema politico, di riforme costituzionali, molto di Catalogna. Lui è consapevole che bisogna fare qualche riforma, ma il suo ruolo è stabilizzare il sistema, il mio di cambiarlo. Paradossalmente lui, che è molto ben informato, è quello con cui ho potuto parlare di più di referendum, di stato plurinazionale, più che con gli altri partiti politici. Mi ha sorpreso moltissimo. Le conversazioni con gli altri sono sempre state centrate sull’aritmetica parlamentare. L’ideologia della governabilità alla fine annulla qualsiasi altro dibattito.

Personalmente, è indipendentista?
Vengo da una tradizione politica che crede nella costruzione di sovranità piene. Una volta consolidate, poi possono essere anche condivise. Un processo in cui prima si dovrebbe riconoscere la sovranità piena della Catalogna, non una mera riforma costituzionale. Dopodiché saranno poi Catalogna, Euskadi, eccetera a decidere se e come federarsi. Qualcosa di simile al federalismo americano del secolo XIX. Ma l’etichetta ‘federalista’ non mi interessa. Il tema del referendum è importante proprio per questo: è un riconoscimento di questo spazio di sovranità per decidere sul proprio futuro. Di fatto, è proprio questo il problema, altrimenti non si spiegherebbe perché non convocano un referendum visto che probabilmente oggi vincerebbe il No. Io sarei a favore di uno stato plurinazionale che riconosca che non c’è una sola nazione di riferimento ma varie.

Perché è contrario alla roadmap approvata dal Parlament catalano verso l’indipendenza?
Sono d’accordo che il popolo catalano ha la legittimità per iniziare un processo costituente, che deve essere inclusivo e aperto, come dicono. Ma poi aggiungono che deve iniziare con un atto di rottura con lo stato, e questo non è né aperto né inclusivo. Se stai costruendo un nuovo paese, devono essere i cittadini a scegliere se vogliono uno stato indipendente o no. Dentro questo processo in atto, c’è una gran parte a favore dell’indipendentismo, vero. Ma nella risoluzione del Parlament c’è una lettura politica immediata: continuano a perdere voti. Sono preoccupati e forzano le tappe, e hanno bisogno che la Cup voti la fiducia al president Puigdemont a settembre. Ma è una politica costantemente dichiarativa, un processo senza fine.

Una curiosità. Il famoso bacio che si diede con Pablo Iglesias al Congresso a marzo fu voluto?
Fu casuale, ma nessuno ci crederà mai perché Podemos ha la fama di preparare le messe in scena. Era il mio primo discorso, Pablo si è emozionato, si è alzato per abbracciarmi, gli voglio molto bene anche io e ci siamo dati un bacio. Fu del tutto spontaneo. Ma è vero che a volte ci sono cose che fai e dopo ti rendi conto che hanno un’enorme carica simbolica. Il giorno dopo mi chiamò un giornalista gay che mi chiese se l’avevamo fatto per dare visibilità all’affettività maschile. Io non lo sapevo, ma era la prima volta che succedeva al Congresso. Lui mi disse che per lui era stato molto importante. Sono stato felice e orgoglioso per l’importanza trasgressiva di un gesto in uno spazio tradizionale, anche se in quel momento non ne ero cosciente.