La richiesta informale di un rinvio della scadenza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) oltre il 2026, avanzata in maniera inattesa e spettacolare dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti durante la conferenza stampa sul Def, è entrata nel dibattito europeo. Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ieri in visita a palazzo Chigi, non ha escluso la possibilità di un rinvio, ma è stato prudente: «Dobbiamo entrare più nei dettagli con la Commissione e con gli Stati membri» ha detto dopo un’ora di colloquio con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni con la quale, si dice, avrebbe parlato dei futuri assetti europei, a cominciare dal ruolo che avrà Mario Draghi nella prossima Commissione Europea e quello che non avrà probabilmente la presidente della commissione uscente, la sodale Ursula Von Der Leyen.

COME SE FOSSE stata concordata, dalla Commissione europea è arrivata ieri una risposta più chiara di quella di Michel, il cui ruolo è in sostanza quello di esprimere opinioni quando si mette l’elmetto e a scrive proclami di guerra sui giornali. «La decisione di prorogare la scadenza del 2026 per il Recovery Fund deve passare, qualora fosse presa, dal voto unanime degli stati Ue e dalla ratifica da parte dei parlamenti nazionali a seconda delle procedure dei paesi membri» ha detto il portavoce capo della Commissione Europea Eric Mamer.

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E POI HA PARLATO il Commissario Ue all’economia Paolo Gentiloni. È la terza volta in una settimana sullo stesso tema. Segno di un conflitto crescente con il governo. «Nulla è impossibile – ha precisato Gentiloni – ma credo che seriamente tutti dobbiamo considerare che la scadenza è il 2026. La scadenza è molto rigida non per intenzione della Commissione ma per decisione dei governi e dobbiamo ricordare che la parte che riguarda l’emissione di Eurobond e che scade nel 2026 discende dall’approvazione dei parlamenti nazionali, quindi non c’è solo l’unanimità ma questa accoppiata a un voto parlamentare».

TRADOTTO: per fare slittare i termini del Pnrr, per il quale l’Italia ha ricevuto più soldi di tutti (194 miliardi), bisogna convincere 27 governi e altrettanti parlamenti. Anche la Germania, e i suoi satelliti,dovranno esserlo. Proprio loro che non vedono l’ora di votare contro la stessa idea del Pnrr: il finanziamento degli investimenti attraverso l’emissione di debito comune. La stessa tecnica prospettata da Gentiloni per finanziare l’industria militare e preparare alla guerra l’Europa. Sembra impossibile, dunque. Ma, poi, chi lo sa?

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LA SORTITA di Giorgetti, non uno a caso, è riuscita. Si è fatto dire di «No» e ha reso più evidente l’inconfessabile, qualcosa che nessuno tra chi ha concepito il Pnrr o sta provando a «metterlo a terra» ammette in pubblico, ma si dice in privato. Esistono giustificati dubbi sul fatto che l’Italia riuscirà a spendere integralmente e concretamente i 151,4 miliardi di euro rimasti (Pnrr), cioè il 78% delle risorse complessive a disposizione. Più del triplo di quanto fatto finora (43 miliardi). Tutto questo entro 14 mesi, giugno 2026, I dati, di cui abbiamo scritto su Il Manifesto tre giorni fa, sono dell’Osservatorio sul Pnrr di Openpolis. Nell’ultima inchiesta pubblicata sono stati riassunti una parte dei problemi del Sacro Graal dell’economia italiana. A cominciare dalla mancanza di dati sullo stato di avanzamento dei lavori. Persino il governo ha detto che le informazioni fornite sono state sottostimate.

C’È ANCHE una ragione elettorale nella sortita di Giorgetti. Nessun retroscena, lo ha detto lui stesso. Potrebbe essere la prossima Commissione Ue a «valutare forse diversamente» ilrinvio del Pnrr. Farebbe comodo ad altri paesi. La proposta potrebbe pesare sulla composizione della prossima Commissione. Sempre che la destra italica pesi molto di più nelle urne, come auspica Meloni. Nel calderone delle elezioni europee di giugno c’è anche questo peso da novanta. È stato messo al collo di un paese che non vedeva da anni investimenti e che forse non è capace di impiegare i soldi ricevuti.