Critico letterario, poeta, ex direttore della rivista Granta, John Freeman è una figura di primo piano del panorama culturale statunitense. Autore di Come leggere uno scrittore (Codice, 2017), una raccolta di interviste ad alcuni dei protagonisti della letteratura contemporanea, ha curato due antologie letterarie sulle disparità sociali in America e dirige la rivista Freeman’s, pubblicata in Italia da Black Coffee. E proprio con l’editore fiorentino, che guarda con particolare attenzione alla poesia e alle nuove voci della narrativa americana, Freeman pubblica ora il Dizionario della Dissoluzione (pp. 190, euro 12, traduzione di Leonardo Taiuti, postfazione di Valeria Luiselli, «un alfabeto della speranza, un invito all’azione e una riflessione sulla giustizia» che propone la «riconquista del linguaggio» come strumento per difendere la democrazia dalla deriva populista e autocratica, che negli Stati Uniti è incarnata dalla presidenza Trump. Alla vigilia delle elezioni del 3 novembre risponde alle domande del manifesto dalla sua casa di New York.

Come si può attuare la rivolta che annuncia nel suo libro?
Possiamo iniziare subito con i nostri corpi. Il linguaggio inizia nella nostra bocca o con le mani se si siamo sordi. Lo usiamo ogni giorno al lavoro, a scuola, a casa. Non è un’astrazione o solo una preoccupazione intellettuale. La lingua è ciò che ci unisce più di ogni altra cosa a parte forse l’acqua. I politici che vogliono accentrare il potere verso l’alto deformano il linguaggio per isolarci e non farci comunicare l’uno con l’altro. Usano allegramente le parole in modi privi di significato per danneggiare quella capacità connettiva, per produrre apatia. Per trasformare in commedia la loro violenza. Usano le parole come armi. Come cittadini possiamo però contrattaccare, restituendo significato e valore al linguaggio. Valorizzando le parole che sono coinvolte nello spazio pubblico: parole come cittadino, come corpo, come decenza, come amore. E possiamo impedire che le parole vengano usate per escludere, per tenere qualcuno fuori dal gioco.

Lo scrittore John Freeman

Tra le parole del dizionario ce n’è una che più di tutte spiega cosa è accaduto quattro anni fa. È la «rabbia» diffusa che ha portato al potere Trump? Può accadere di nuovo?
Ho ovviamente paura che Trump «vinca» le elezioni martedì, anche se credo che ciò potrebbe avvenire solo perché i repubblicani stanno mettendo davvero molta «rabbia» nel tentativo di vincere – cercando con ogni mezzo di impedire il normale svolgimento del voto, specie quello postale cresciuto a causa del Covid -, e non perché il loro candidato possa raccogliere la maggioranza dei consensi. Stanno facendo di tutto per eliminare una parte dei voti e questo perché la nazione che hanno di fronte gli somiglia sempre meno: è meno bianca, meno maschile, meno favorevole al mondo delle imprese e all’idea che il mercato azionario sia considerato il barometro della felicità degli americani. La maggior parte delle persone sostiene il diritto all’aborto, difende l’Obamacare, i diritti degli immigrati regolari. Così, visto che l’America sta cambiando, la destra ha deciso di dichiarare guerra al Paese, cominciando dal ridurre i diritti degli elettori. E cosa succede quando una nazione sente che la sua voce viene strozzata? Si ribella. Ciò che vedo crescere ora è un livello di determinazione mai visto negli ultimi cinquant’anni, dalla stagione dei movimenti per i diritti civili. Le persone stanno letteralmente mettendo i loro corpi in gioco per proteggere la democrazia: sono in fila per votare durante la peggiore pandemia della storia moderna. Alla rabbia stanno rispondendo con l’amore.

[do action=”citazione”]Un «complotto» ha lo schema superficiale della verità, ma l’architettura di una bella storia. E l’attuale presidente è un brillante narratore di queste «storielle»[/do]

 

Lei parla di una «guerra dell’informazione» cominciata ben prima del 2016 e che vede i nuovi media, a partire dai social, dominare la scena per «manipolare» l’opinione pubblica.
Da un decennio a questa parte, in quasi tutte le nazioni dove il populismo ha dato vita a governi con sfumature fasciste, la disinformazione ha lasciato tracce nel campo digitale. Non penso solo alla Russia, ma a Duterte nelle Filippine, alla destra dei Balcani, perfino ai narcos in Messico. C’è un libro di Peter Pomerantsev – Questa non è propaganda. Avventure nella guerra contro la realtà (Bompiani) – che spiega bene cosa stia accadendo. Twitter è rimasto a guardare mentre un presidente degli Stati Uniti incoraggiava la violenza, Facebook ha consentito alle app di sottrarre dati che sono stati utilizzati da Cambridge Analytica e dio solo sa da chi altri per influenzare gli elettori statunitensi. E non si tratta di qualcosa che accade solo durante il voto. Tutta la «nostra tecnologia» ci osserva costantemente. Ora sappiamo che il mondo che hanno creato ci usa come prodotto. Lei, io – i nostri dati – questo è ciò che viene venduto. Ad ogni passo che facciamo in un mondo connesso a telefoni cellulari dotati di Gps, quel telefono registra quanto tempo passiamo nei corridoi dei supermercati, quando rispondiamo ai ping, il modo in cui interagiamo con i diversi prodotti. Sembra una distopia eppure è reale. Come consumatori, viviamo in uno stato di sorveglianza totale. Il grande segreto dei nostri tempi non è che ci sia un grande segreto, una gigantesca cospirazione, è che le aziende che gestiscono il mondo dell’informazione fanno soldi permettendoci di credere che questa sia la realtà. Parlo del vivere in una sorta di «bolla» di idee creata da Internet. Twitter, Facebook, i loro algoritmi guardano ciò che ci piace e poi ce ne inviano sempre di più. Il risultato è che online incontriamo solo persone come «noi», che se la prendono con chi è diverso, con dei «loro» creati allo stesso modo. Il risultato è un ambiente deformato che non a caso somiglia molto al clima che regna ad un comizio di Trump.

Senza citarlo, il suo libro sembra riflette anche sul fenomeno del «complottismo» che oggi negli Usa si è trasformato in una delle versioni della comunicazione mainstream, addirittura del linguaggio delle istituzioni. Perché una «bella storia» surreale si può affermare così facilmente al posto della verità?
È difficile convivere con la complessità, raramente offre facili consolazioni, ma rappresenta un balsamo per l’anima: ci permette di accettare che il mondo è una realtà difficile e dura da capire. Può esserci anche molta bellezza in tutto ciò: come descrivere altrimenti un racconto popolare di Italo Calvino? O che dire della chiarezza di un verso di Patrizia Cavalli che ci invita a toglierci gli occhiali e guardarci l’un l’altro, piuttosto che guardare altrove? Solo che purtroppo nella politica odierna non c’è spazio per la poesia. Così, la complessità è rimpiazzata da una narrazione banale: «Dobbiamo rendere di nuovo grande l’America». Oppure: «Sono qui per rubarci il lavoro». Oppure: «I migranti sono criminali». È molto più difficile dire che il nostro governo ha beneficiato di politiche che hanno sottratto risorse al Sud del mondo per secoli e ora, mentre quelle zone diventano aride e si moltiplicano le guerre per il controllo delle risorse essenziali divenute sempre più scarse, le persone sono costrette a emigrare. Sono 36 parole, contro tre. Un «complotto» ha lo schema superficiale della verità ma l’architettura di una bella storia. Trump è un brillante narratore di queste storie e c’è il rischio che nel tentativo di decodificarle, i media e i critici dei media finiscano per banalizzarle ancor di più.

[do action=”citazione”]Trump usa le parole in modi privi di senso per danneggiare ogni capacità connettiva, per produrre apatia. Dobbiamo reagire[/do]

 

Lei ha curato due antologie – «Tales of two cities» (2014) e «Tales of two americas» (2018) – che raccontano il dilagare della povertà e dell’emarginazione nel Paese. Temi quasi assenti dalla campagna per le presidenziali. Come è possibile?
Il potere delle storie semplici non è solo il modo in cui funzionano come cavalli di Troia, imponendo delle idee nelle menti degli elettori. Il loro più grande potere è la distrazione. Jeff Bezos (l’ad di Amazon) potrebbe comprare una casa per ogni senzatetto americano e restare comunque il miliardario che è. Eppure, quante volte abbiamo sentito parlare di questo invece che delle performance straordinarie della sua azienda, del fatto che possiede 150 milioni di dollari di immobili a Manhattan o perfino dei suoi incredibili bicipiti di uomo di mezza età? Stiamo parlando di un sistema che consente di accumulare questo tipo di ricchezza mentre solo a New York ci sono 70mila homeless e un bambino americano su 5 soffre la fame. Come è possibile? Il motivo è che una «grande storiella» ha occupato tutto lo spazio in cui quella discussione potrebbe aver luogo. In questo momento c’è un presidente che raglia e dice: «Ehi, è fantastico essere ricchi, guardami!». Ed è molto difficile convincere gli americani a rinunciare alla speranza che un giorno anche loro potranno essere altrettanto ricchi, dimenticandosi delle difficoltà che attraversano oggi. E di chi sta peggio.

La voce «speranza» del dizionario parla della necessità di trovare una lingua comune attraverso la protesta, consapevoli «che una manifestazione altro non è che il tentativo di trasformare un gruppo di corpi in una frase». Questo accade da tempo in America, con quale esito?
Fin dall’inizio della presidenza Trump, le proteste – a cominciare dalla marcia delle donne – hanno definito gran parte della vita politica americana. Purtroppo, ad esempio le proteste di Black Lives Matters, sono avvenute già prima delle elezioni del 2016, mentre la polizia uccideva (e continua a uccidere) neri disarmati. E quasi nessuno degli agenti responsabili è stato punito. Anche per questo sempre più persone si sono unite alle mobilitazioni. Molti americani si stanno abituando a mettere in gioco anche i propri corpi, sostenendosi gli uni con gli altri. È quello che sta accadendo anche ora, mentre le persone hanno già iniziato a votare e vogliono che le elezioni procedano in sicurezza, che ogni singolo voto sia contato. Si stanno battendo per difendere la democrazia, la giustizia e la dignità di questo Paese.