È uno squarcio di futuro vedere il senato discutere a vuoto di una manovra top secret e i due vicepremier arringare i fan sui social network in un soliloquio h24 senza contraddittorio né mediazioni.

Un parlamento umiliato e il selfie di un politico con la faccia sorridente che racconta la bellezza dei suoi provvedimenti, sconosciuti e che nessuno può controllare.

Per i più duri di comprendonio, il succo del taglio ai fondi editoria è questo: persone potenti che parlano, parlano, mentre dietro le quinte fanno come gli pare.

Invece che moltiplicare i punti di vista, la Rete li strappa verso l’alto, lasciando fuori campo il racconto contraddittorio, la verità dei fatti, il conflitto con chi la pensa diversamente da te.

L’algoritmo, è cosa nota, premia gli uguali e punisce la differenza.

Salvini e Di Maio disertano il Palazzo, che sia quello del senato o il Quirinale, e si precipitano su ogni media a disposizione per ripetere dal mattino alla sera che hanno vinto. Che lo scontro con l’Europa è stata una tattica negoziale o frutto di inesperienza (lo ha detto ieri a Roma il sottosegretario Giorgetti per rassicurare i giornalisti della Stampa estera alla fine di una lunga intervista).

A che servono giornali che raccontano come stanno le cose o che le vedono diversamente? Salvini si sveglia e con la voce ancora impastata dal sonno interviene su Radiouno per attaccare Avvenire, dà cifre sbagliate sul fondo per il pluralismo, motivazioni risibili per il taglio. Lui è potente e può farlo, nonostante le puntuali domande del cronista. Mente ma non importa. Chi lo ascolta non ha gli stessi suoi strumenti per seguirlo.

L’ascoltatore alla radio o il fan di facebook non sa che i famigerati risparmi del taglio al pluralismo nel 2019 saranno di appena 10 milioni di euro e colpiranno in modo mirato «solo» 17 testate, tra cui la nostra, Avvenire, Libero, il Cittadino, il Corriere di Romagna, etc. più Radio radicale.

Fortunatamente, infatti, il governo sembra aver salvato dalla ghigliottina almeno i giornali delle minoranze linguistiche, quelli dei ciechi e dei consumatori, le testate all’estero. E i tanti sotto al tetto dei 500mila euro di contributo fino al 2022 sono più o meno al sicuro.

Dunque in tutta questa epica battaglia contro la «casta» dei «parassiti» dell’informazione alla fine gli unici feriti sono 17 giornali in cooperativa e non profit.

Testate vere, importanti, senza scopo di lucro, che in qualche caso vendono anche molto. Con l’unica «colpa» di avere idee diverse da quelle di Lega e 5 Stelle su tante cose (immigrazione, sicurezza, poltiche del lavoro, grandi opere, relazioni internazionali, etc.).

Non è, infatti, con una motivazione economica che la propaganda giallobruna può alimentare la sua ghigliottina. La sostiene diffondendo il falso, come un virus, alimentando gli equivoci, cortine fumogene sui propri scandali, scalpi da esibire a un «popolo» sempre più in sofferenza, come le teste mozzate offerte dagli Aztechi a una divinità lontana e irascibile.

Se per «abolire la povertà» servisse davvero donare le modeste pagine di questo giornale saremmo i primi ad offrirci, sarebbe un sogno comunista.

I giornalisti a volte si sbagliano. Succede a chiunque. Criticare i giornali è giusto, sacrosanto. Ma non si possono criticare i politici agitando pollicioni o cuoricini su Facebook (come ha sostenuto Giorgetti con leggerezza alla Stampa estera).

Questa estate oltre 300 quotidiani statunitensi hanno risposto agli attacchi di Trump chiedendo ai lettori di difendere insieme alle redazioni la libertà di stampa, che in quel paese ha radici antiche.

Uno dei loro padri fondatori, Thomas Jefferson, alla fine del ’700 scrisse che preferiva «giornali senza governo» a un «governo senza giornali».

Oggi i giornali sono cambiati, gli scoop viaggiano sui telefonini, gli schermi degli aeroporti, gli algoritmi.

Difendendo tutte le testate possibili non è il mondo di ieri quello che difendiamo, ma quello di domani.