Al popolo la chiusura dei porti, al potere lo scalpo del parlamento: questo è il contratto proposto in queste ore dal cosiddetto governo del cambiamento. C’è una subalternità politica, sociale e culturale che impedisce però la comparsa di una vera opposizione allo scempio democratico.

In tanti si attardano nell’esercizio di appurare quale dei due partner dell’esecutivo sia meno pericoloso. Quanto sta accadendo nel simulacro del parlamento scioglie ogni dubbio interpretativo.

Le due forze al potere convivono agevolmente con le loro apparenti differenze perché entrambe le sigle incarnano una lettura illiberale della democrazia. Essa prevede forzature a principi essenziali, così preziosi che meriterebbero in loro difesa una risposta di massa, paragonabile a quella che in altri tempi il Partito comunista italiano ha saputo organizzare dinanzi alle aggressioni ai cardini dell’ordinamento costituzionale.

C’è un problema democratico in Italia, con un parlamento afono costretto ad approvare la legge più importante in materia economico-sociale senza avere neppure il testo scritto dei provvedimenti varati. Al senato le parole più limpide, sul ruolo ormai solo decorativo lasciato alle Camere, sono venute da Emma Bonino. Dalle punte più sensibili della cultura liberale si è dipanata la più seria dichiarazione critica sulle condizioni della repubblica e sul degrado della dignità della rappresentanza. E dalle corde più avanzate del cattolicesimo sociale promana la denuncia del continuo strappo costituzionale, in merito ai diritti fondamentali della persona, operato dal governo in nome della sicurezza e del sovranismo.

Liberali e cattolici fanno sentire la loro presenza. C’è invece un vuoto e un silenzio nel sindacato e nella sinistra, dove il sentimento dell’impotenza pratica dopo la sconfitta diventa anche smarrimento del pensiero e quindi annuncio di una perdita di funzione storica. Eppure la situazione è trasparente nella sua gravità.

Già a Piazza del Popolo, con i gesti, con l’atteggiamento, con i toni, con le metafore Salvini ha lanciato una sfida totale all’ordinamento. Con il rito che recuperava grotteschi scenari da anni Trenta, ha chiesto alla piazza l’autorizzazione a trattare con le perfide burocrazie di Bruxelles, in nome di 60 milioni di italiani.

Scambiare la propria folla obbediente, per l’intero corpo della nazione omogenea e univoca, che concede una procura senza limiti al «capitano» quale unica incarnazione della volontà generale, è una provocazione esplicita, lanciata verso la civiltà liberale, che non ha trovato efficace risposta.

Il leader del partito che ha più volte sfidato l’azione penale delle toghe per i titoli di reato previsti contro chi minaccia l’integrità territoriale della repubblica, ha osato anche avvicinarsi alla folla con addosso le uniformi della polizia di Stato. Il leader del partito dalla ancora fresca memoria secessionista (che permane nella rivendicazione di una autonomia differenziata delle regioni ricche del nord), e dalle velleità di edificare parlamenti padani, ha scambiato la polizia democratica per un surrogato della milizia verde.

Il capo di un partito dalla finanza allegra, che deve restituire alle casse del fisco 49 milioni, ha indossato nei suoi spostamenti anche i panni delle fiamme gialle. Il «capitano» cerca l’acclamazione della folla passiva, si propone al pubblico come la volontà unica di un popolo intero che gli ha conferito un potere sostitutivo, si fa scudo con la divisa della polizia e la getta come segno di una aspettativa di conformistica fedeltà alla volontà di potenza personale di un interprete dell’umore della gente. La manovra del popolo, scritta dal governo della felicità, è in realtà uno schiaffo contro il popolo reale, alle sue istituzioni di rappresentanza, ai valori del costituzionalismo.

All’ombra del premier esecutore, l’esperienza di governo tra Lega e M5S non si configura affatto come un incidente occasionale. Nel bicolore esiste una convergenza profonda di culture politiche, di linguaggi, di stili, di mentalità, di referenti. Tra il «capo politico» di Maio, che esprime il lato dannunziano-fiumano del non-partito di piazza e di balcone, e il «capitano» Salvini, che nella mistica dell’ordine sovranista si esibisce con la divisa della polizia di Stato, se «ne frega» dell’Europa, e appende sul petto come «medaglie» al valore le inchieste della magistratura, le sfumature non sono tali da rigettare la condivisione strategica di un percorso dal volto illiberale.

Non sorprende che ben presto il clima patriottico della nazione (sotto)proletaria in guerra contro i perfidi rappresentanti della straniera potenza teutonica, si sia trasformato nella resa più completa agli imperativi dei «tecnocrati di Bruxelles».

Alla ritirata senza gloria, fa seguito una accelerazione che suggerisce l’oltraggio alle istituzioni della repubblica parlamentare. Cos’altro occorre ancora vedere per non riconoscere nel populismo di sistema la caricatura e il cattivo odore delle più ridicole storie di ieri?