Sono varie le voci critiche a commento del Piano del governo Draghi. Si dice che è senz’anima, che non ha un disegno, una visione. Forse occorrerebbero più radicalità e coraggio. Si dovrebbe dire con onestà ciò che non può figurare nel lessico di questo governo

Quel che solo in parte e timidamente è presente nel linguaggio della sinistra: una chiara prospettiva anticapitalistica. E’ questa l’anima di cui si è alla ricerca, l’unica idea-passione che possa dare alla politica la vastità di orizzonti all’altezza delle condizioni presenti, delle sfide imponenti che ci minacciano.

Si è parlato sinora di globalizzazione come se si fosse trattato di un evento atmosferico, un processo impersonale senza attori e protagonisti. Ma la storia è fatta dagli uomini, e mai come in questa fase è stata storia dei vincitori. La globalizzazione non è semplicemente l’espansione materiale del mercato mondiale, è la conquista da parte del capitale, vittorioso sulla classe operaia e sui sindacati (e persino sui ceti medi), di geografie e spazi più vasti di valorizzazione e di dominio, grazie anche all’invenzione di prodotti prima ignoti e a nuove modalità di sfruttamento del lavoro. Ed è a questo che bisogna guardare per capire la natura di classe di quanto è avvenuto.

Altrimenti nessuno della mia generazione potrebbe darsi ragione del grande rinculo subito dalla condizione contrattuale di milioni di lavoratori, come ad esempio i rider e i dipendenti delle piattaforme, gli operatori dei call center, i tanti giovani dei lavoretti per pochi soldi, i braccianti agricoli nelle nostre campagne. Ma chi di noi, 30 o 40 anni fa, avendo come memoria dell’infanzia le vittorie dei braccianti agricoli nell’Italia repubblicana, avrebbe potuto prevedere il ritorno in grande stile della schiavitù di massa, una pagina di infamia non solo dei tanti, feroci, imprenditori agricoli, ma anche dei governi che la rendono ancora possibile.

La più clamorosa rimozione che accompagna il termine globalizzazione riguarda quanto è accaduto nel frattempo al pianeta. Si dimentica che la falsa infinità attribuita di fatto per buona parte del ‘900, alla Terra e alle sue risorse, si basava sui limiti geografici del capitalismo maturo. Esso a lungo, per scala di produzioni e consumi, è rimasto circoscritto all’Europa, agli Usa e al Giappone, in parte alla Russia. Il resto del mondo era fatto di retrovie sottosviluppate, territori di saccheggio neocoloniale. Oggi non solo i paesi di antica industrializzazione sono pervenuti a standard di produzione e consumo senza precedenti, anche i territori del “Sud” del mondo, con popolazioni di miliardi di individui, partecipano alla corsa, sferzati dalle regole della competizione globale.

Con questi numeri l’infinità della natura è scomparsa, la finzione è finita, e anche se classi dominanti e ceto politico fanno finta di niente, portano la maschera come se la festa di Carnevale durasse ancora, il pianeta comincia collassare. I più guardano solo a un aspetto della crisi ambientale: il riscaldamento globale, perché illusoriamente, i rimedi appaiono compatibili con la necessità intrinseca del capitale di crescere all’infinito.
Ma così non è, il capitale ha bisogno di incrementare produzione e consumo, deve divorare sempre più materiali, acque, terre fertili, foreste, spazi. E’ una necessità del capitale, non del genere umano.

Lo mostrano limpidamente ai nostri giorni l’agricoltura industriale e l’allevamento intensivo. È un ambito produttivo non solo responsabile del 20-30% dell’effetto serra, ma che consuma oltre il 70% delle risorse idriche mondiali, desertifica ogni anno migliaia di ettari di suolo fertile, porta a una crescente deforestazione (l’Amazzonia è la sua grande vittima), inquina l’aria di vaste aree rurali, produce tanto cibo scadente, espelle dalle campagne i piccoli coltivatori che lasciano i territori senza presidi, favorisce lo schiavismo bracciantile. Di fronte a tanto carico sul pianeta e sulla società il risultato è paradossale: ogni anno 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo finiscono in spazzatura, mentre circa 800 milioni di persone soffrono la fame.

Allorché si parla di lotta anticapitalista scatta un riflesso condizionato di allarme. Si immagina un incitamento insurrezionale al fine di instaurare la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Come se non fosse più possibile pensare a quella prospettiva quale esito di un progetto riformatore, che si lega alla politica quotidiana e ai conflitti locali.

E invece si tratta di una orizzonte necessario per dare senso e passione alla lotta politica, che non può limitarsi a rivendicare “un po’ di lavoro” o tecnologie più pulite, un po’ più di risorse per la ricerca, per la scuola, ecc. L’edificio è in fiamme e ci preoccupiamo di salvare qualche muro maestro.

La pandemia da Covid 19 ci ha mostrato lo stato delle cose con il volto della morte di massa: la Terra, e i viventi che la abitano, è un pianeta fragile, che dobbiamo amministrare con prudenza, che non possiamo affidare agli appetiti illimitati del capitale. Senza un nuovo modo di produzione e consumo non c’e salvezza. E bisogna pensarlo e dirlo ora, come un progetto capace di dare alla politica spenta dei nostri anni la sola tensione universalistica capace di ridare, alle sue parole, il suono della speranza