All’appuntamento con la storia l’Unione europea poteva sgretolarsi o rilanciarsi. Ha scelto la secondo strada.

La Germania ha compreso che non poteva affrontare la crisi post-Covid allo stesso modo di quella dei mutui subprime. Imporre la via dell’austerità come soluzione alle voragini economiche e finanziare di alcuni paesi dell’eurozona avrebbe semplicemente significato l’avvio di un processo destabilizzante e dagli esiti imprevedibili.

Rimaneva una sola possibile soluzione, che molti di noi invocavano da anni, ovvero il trasferimento alle aree più colpite di risorse reperite attraverso l’emissione di Eurobond.

È questa la vera novità: per la prima volta si ammette la possibilità che l’Unione europea si indebiti per finanziare programmi comuni di sviluppo e solidarietà. Rimane certamente forte l’approccio intergovernativo e il programma è esplicitamente richiamato come limitato nell’importo, nella durata e nello scopo.

Si tratta tuttavia di un precedente da cui sarà difficile tornare indietro, che apre la strada ad un’Europa capace di investire risorse proprie e non semplicemente di imporre forme ideologiche di disciplina di bilancio. Una svolta di grandi proporzioni che solo fino a qualche tempo fa non avremmo nemmeno potuto immaginare.

Né ci si deve fare ingannare da presunte condizionalità o freni a mano, che appaiono più una concessione formale alla rigidità negoziale olandese che un tema reale. La Commissione si limita infatti a dare una valutazione, che parte dalle raccomandazioni, dal rafforzamento della crescita e dell’occupazione, per concludersi con politiche verdi e di sviluppo digitale. Poi la palla passa al Consiglio per l’approvazione.

I piani nazionali potranno essere bloccati da una minoranza di paesi che rappresentino almeno il 35% della popolazione europea. Nella sostanza solo l’asse franco-tedesco ha un potere di veto, che in questa fase appare più teorico che reale.

Il passaggio successivo per cui battersi è ora l’attribuzione della potestà su questi fondi al Parlamento europeo, che anche in questo passaggio si è dimostrato più avanzato della dinamica inter-governativa.

L’Italia ottiene un importante risultato in termini di risorse disponibili, con oltre 81 miliardi a fondo perduto e 127 di prestiti agevolati.

Si tratta di un risultato frutto del lavoro che il governo e il presidente Conte hanno costruito in Europa fin dall’inizio di questa emergenza, quando ancora non tutti avevano compreso la dimensione della crisi.

Il problema sono i tempi di erogazione: fino ad aprile 2021 si dovrà fare fronte alle esigenze di liquidità con risorse proprie, e questo obbliga di fatto ad affrontare la scelta fra ricorso al Mes o a emissioni straordinarie di Btp.

Si tratta di una questione complessa, che andrà affrontata non in solitaria ma insieme ai nostri partner dell’Europa meridionale, a partire da Spagna e Portogallo, anche per evitare i rischi legati a un aumento del costo del finanziamento del debito o alle potenziali conseguenze in termini di programmi di sorveglianza.

Il tema principale per la sinistra oggi è tuttavia come fare la propria parte perché il piano di recupero e resilienza parli la lingua della conversione ecologica, dei diritti del lavoro, del welfare e dei beni comuni, dell’investimento sulla scuola, sull’università e sulla ricerca pubblica anziché quella dei desiderata di una Confindustria che punta a prendere tutto liberandosi da ogni vincolo.

I soldi non servono a nulla, se finiscono nelle tasche sbagliate.

Nelle settimane e mesi che ci aspettano l’Italia ha l’occasione di ridisegnare il proprio futuro e può farlo nel segno della giustizia sociale e ambientale.

È su questa sfida che occorre impegnare tutte le energie disponibili, con l’obiettivo di qualificare l’azione del governo. Per questo la discussione sulla costruzione di una rete ecologista e di sinistra arriva al momento giusto.

Può essere decisiva per innescare un processo di cucitura e di attivazione di esperienze, culture politiche e punti di vista che già oggi segnalano nel Paese una significativa potenzialità, ma prive di uno spazio di confronto nel quale condividere ciò che c’è e costruire ciò che manca.