Una valanga giudiziaria si è abbattuta sulla Basilicata, per vicende legate a nomine sanitarie, concorsi pubblici, incarichi professionali, persino tesi di laurea e dottorati universitari.

Come sempre in questi casi, le responsabilità penali andranno dimostrate. Ma intanto quel che emerge è un quadro desolante di malapolitica e malamministrazione.

Qualche giorno fa ha avuto una – troppo breve – risonanza lo scontro tra il procuratore di Milano Francesco Greco e l’autorità anticorruzione guidata da Cantone.

Tutto è nato dalla dichiarazione di Greco che il modo di procedere dell’autorità, e in specie la richiesta di documenti presso le amministrazioni, determina una discovery anticipata che rende inutili le indagini perché gli interessati corrono ai ripari.

Uno scontro personalistico? No. In realtà era sottesa una diversa filosofia del contrasto alla corruzione.

Formalmente, negli ultimi anni la strategia anticorruzione ha fatto passi avanti.

Le PA hanno piani e responsabili anticorruzione, si adottano codici etici, l’Anac dirama circolari, definisce le best practices, fa scrutini preventivi su procedimenti in corso, stipula protocolli di legalità e patti di integrità.

Un fiume tumultuoso, che però scorre sulla corruzione lasciandola, a quanto dicono le inchieste, sostanzialmente indisturbata.

Ancora nel 2017 il Corruption Perception Index di Transparency International vede l’Italia al 54mo posto, appena un po’ meglio di prima. La Namibia ci batte, mentre noi sconfiggiamo valorosamente la Croazia e l’Arabia Saudita. Inutile dire che i maggiori paesi europei sono ben più alti in classifica.

Perché è così difficile?

Il punto è che la lotta anticorruzione messa in campo è tuttora essenzialmente fondata sulle carte. Mentre la corruzione tipicamente cura che le carte siano a posto.

Nella recente vicenda dello stadio di Roma si trova sul web una illuminante dichiarazione di Cantone per cui l’Autorità non aveva rilevato alcuna criticità. Questo è esattamente il problema. Tra Greco e Cantone scegliamo il primo.

La corruzione si combatte creando un ambiente a essa ostile quotidianamente e in ogni momento, nei luoghi di lavoro, nelle cerchie professionali e imprenditoriali, in tutte le stanze in cui si decide e si gestisce, nell’opinione pubblica.

In un contesto così vasto e ramificato come quello emerso in Basilicata, quanti sapevano, sospettavano, intuivano e non hanno parlato? Quanti sono stati danneggiati da scelte clientelari e però hanno taciuto, per paura, per quieto vivere, o magari per l’aureo principio che oggi a te, domani a me?

Il corruttore e il corrotto sono legati da identico interesse a mantenere il silenzio e coprire il malaffare. È difficile incuneare tra i due la lama della giustizia.

Qualcosa si può fare, e si è anche fatto, raffinando le norme. Ma l’ambiente ostile si deve creare attraverso il controllo di una opinione pubblica attenta, di una stampa libera, di una magistratura autonoma e indipendente.

E soprattutto stimolando nel circuito della politica la rinascita di anticorpi. In una politica senza partiti, in cui l’unica cifra valida è data dal consenso personale di cui si dispone, fatalmente cresce la tolleranza verso le pratiche clientelari e lo scambio di favori che sono alla base dei fenomeni di corruzione diffusa.

La storica battuta sulle fritture di pesce esprimeva un modo di intendere la politica. Ed era funzionale al mondo di oggi, in cui non esistono più le organizzazioni di partito che un tempo esercitavano il primo filtro sui propri iscritti e rappresentanti nelle istituzioni, e nemmeno assemblee elettive capaci far valere una responsabilità politica e di esercitare un pubblico controllo su chi detiene il potere.

Non basterà un’Autorità per tirarci fuori dalla palude, e ci vorrà tempo per ricostruire.

Ci consola solo la compagnia di Salvini. Suggeriamo rispettosamente a Mattarella di non accogliere la richiesta di un incontro volto a rappresentare un provvedimento giudiziario come attacco alla democrazia, mentre ha messo nel governo Morrone, che vorrebbe dichiarare guerra alle «toghe rosse».

Siamo da sempre convinti che bisogna difendere l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, perché la democrazia e la giustizia rimangono.

I Salvini e i Morrone passano. Meglio prima che poi.